La lunga, scodinzolante coda che piace al buzz marketing

Scenario uno. Siete al telefono con un vostro conoscente, una persona simpatica, piacevole e in cui riponete fiducia. Il vostro interlocuttore, en passant, tra una chiacchiera e l’altra, vi informa di avere provato il telefonino X, e vi dice che è un ottimo oggetto, pieno di funzionalità interessanti. Poi qualche altra chiacchiera, e riattaccate. Voi siete certamente persuasi che il telefonino X sia un prodotto interessante: ve l’ha detto informalmente una persona in cui avete fiducia, mica la pubblicità. Dall’altro capo del filo, intanto, il vostro conoscente stappa una bottiglia di champagne che l’azienda produttrice del telefonino X gli ha regalato in cambio della sua prestazione con voi al telefono.

Scenario due. Incontrate per strada un vostro conoscente, con cui trovate piacevole intrattenervi. Vi mettete a chiacchierare del più e del meno, quando lui all’improvviso tira fuori una sveglia di marca X, ve ne fa notare accuratamente la marca e il modello, e vi dice di averla ricevuta gratis a patto che la mostrasse ai suoi amici. Vi chiede poi di fare una foto di voi due insieme alla sveglia, che deve usarla per dimostrare d’aver svolto il servizio.

Signore e signori, benvenuti nell’era del buzz (o word-of-mouth) marketing.

Buzz marketing che significa, appunto, comprare le libere opinioni e i liberi spazi comunicativi degli individui (più influenti essi sono, meglio è, ovviamente), per poi temporizzarli, coordinarli e pianificarli al fine di mettere in atto delle campagne pubblicitarie apparentemente virali a favore di una data marca o prodotto. E il foro boario principale in cui si svolge questa mercatura è, ovviamente, la blogosfera.

Un passo indietro. Pubblicitari e aziende sanno, da sempre, che il grande limite della pubblicità è il suo connotarsi, appunto, come pubblicità: cioè il suo essere un messaggio chiaramente marcato come “sono una roba ideata e progettata per venderti qualcosa”.

E il grande sogno, quello che li fa salivare e li spinge a strusciarsi contro i mobili facendo le fusa, è sempre stato quello: fare pubblicità che non sembri pubblicità, ma comunicazione apparentemente disinteressata. Di qui la deriva onnipresente, oscura e in background verso la pubblicità occulta (occulta, poi, si fa per dire: chiunque legga con occhio un po’ smaliziato i media mainstream, sa quanto essi siano letteralmente infarciti di marchette). E di qui, la spinta contraria e normativa secondo cui la “pubblicità occulta” è una cosa disdicevole: a sanzionare e governare, codici di autoregolamentazione e authority varie. Il che, per la pubblicità che anela a travestirsi da altro, rende la partita mainstream (TV, giornali etc) estremamente macchinosa, rischiosa e tutto sommato piuttosto limitata nella sua efficacia.

Ma ecco che, come un sogno ad occhi aperti, arrivano la rete e i blog. Centinaia di migliaia di spazi comunicativi informali, in cui individui comunicano liberamente e multimedialmente fra di loro a proposito di qualsivoglia argomento. Un territorio vergine, un nuovo Klondike, per di più strutturalmente incoercibile da authority e autoregolamentazioni: tutto è lasciato all’iniziativa e all’etica personale. Un potenziale paradiso del marketing nascosto. Trasformare gli individui liberi in testimonial, possibilmente senza che ciò si veda! Roba da orgasmo.

Vorrebbe funzionare così.

Ci sono agenzie che affiliano, cioè nei fatti comprano, i blogger.
Questi blogger svolgeranno, a loro discrezione e remunerati, un servizio per queste agenzie: parlare ai propri lettori di un marchio o prodotto “a comando”, ovvero quando l’agenzia glielo chiederà. Ovviamente, quanto più il blogger è influente (rispettato, credibile e con molti lettori), e quanto più sarà bravo a propagare un messaggio positivo sul marchio o prodotto, tanto più l’agenzia ricorrerà a lui e lo premierà per i suoi servizi. E viceversa. Per cui al blogger di nome il premiuccio di valore. Alla massa degli “sfigati” (in senso tecnico-numerico, sia chiaro) contentini altrettanto sfigati.

L’agenzia, attraverso questo meccanismo, crea delle campagne di opinione fintamente virali (almeno all’inizio: tutto è frutto di una pianificazione; chiaro che poi i lettori amplificheranno e replicheranno i messaggi dei propri beniamini, creando della vera viralità), e vende queste campagne ai propri clienti (aziende, agenzie pubblicitarie etc).

I risvolti economici per le agenzie di buzz marketing sono, allo stato attuale, del tutto oscuri: non si conoscono i volumi d’affari, né i listini, né si capisce su che base vengano misurate (e quindi vendute) le campagne messe in atto.

I risvolti economici per i blogger li si evincono dai disclaimer dei siti delle dette agenzie: è il classico massacro da “long tail”. Long tail, coda lunga, è l’uovo di colombo del webmarketing del terzo millennio: s’è appurato che “pochi e notissimi” valgono complessivamente meno di “tantissimi e poco noti”. A una condizione però: che le masse di poco noti devon costare, per singolo elemento, quasi nulla, che altrimenti la genialità economica della coda lunga se ne finirebbe dritta dritta nel cesso.

E così i blogger li si comprano con cantuccini di pane: prodotti “in esclusiva”, “esclusivi” inviti ad eventi vip, accesso a contenuti “esclusivi”. E’ lo squallore da wannabe VIP che ha fatto la fortuna dei privé nelle discoteche più becere.

C’è un ristorante dove pubblicitari, agenzie e aziende s’abboffano allegramente. Sotto al tavolo, stanno un po’ di blogger-cagnolini, festosi e affamati, cui si getta qualche osso da rosicchiare. Fuori, nelle strade, centinaia di migliaia di altri cagnolini vagabondano liberi e senza meta: la speranza dei commensali è che s’ammassino col naso schiacciato sulla vetrina, e vedendo i loro simili spolpare voracemente quelle ossa, vadano a comprarsene una – o, in alternativa, scelgano anch’essi di stare sotto al tavolo. La miglior coda lunga, per il buzz marketing, è quella scodinzolante di chi s’accontenta di un avanzo.

Vorrebbe funzionare così. Ma funziona?

Chissà. Per ora siamo ancora all’inizio. Le due principali piattaforme di buzz attive sul mercato italiano, BuzzParadise e Zzub (già bzzers), paiono in perenne fase di lancio e proselitismo, accolte più da scodinzolii che da latrati d’allarme. I più visibili teorici e commentatori critici interni alla blogosfera ne parlano poco, e in quel poco (che viene per lo più da Gaspar Torriero) paion prender la cosa sotto gamba: non funzionerà, è una cosa ingenua e goffa che non capisce i meccanismi di internet etc. etc.

Alcuni di essi, addirittura, si son fatti alfieri dell’operazione. Tra i casi che val la pena citare, quello di Giuseppe Granieri, teorico per Laterza della blogosfera, e di Luca Conti, il blogger di successo per antonomasia, che se ne partirono qualche tempo fa alla volta di Parigi arruolati da BuzzParadise. Ne nacque una brevissima discussione con Vittorio Zambardino che verteva sull’opportunità o meno di siffatte iniziative: brevissima, perché alle impeccabili e sagge argomentazioni di Zambardino, i nostri due hanno cessato quasi subito di ribattere. Da allora, per quel che ho potuto verificare scrivendo questo post, Granieri parrebbe averci dato un taglio.

Conti, invece, s’è di recente autoannunciato referente italiano di BuzzParadise. Per la precisione, buzz consultant: per tornare alla figurazione di prima, da sotto il tavolo è passato sopra. Nella qual cosa non c’è nulla di esistenzialmente censurabile: ognuno fa quel che gli pare della propria vita. Ed è certo comprensibile il desiderio di cercare di mangiar a sedere e in un piatto, anche se magari ciò significa chiedere di rosicchiare gli ossi ai tuoi lettori.

In sede di analisi, però, io non ignoro che Conti è uno di quegli ahimé strettissimi colli di bottiglia attraverso cui la blogosfera in questa fase si racconta all’esterno; che è l’amico di tutti, onnipresente a tutte le merendecamp; che insegna web2.0 nelle università; che scrive di blog e internet sui giornali; che passa metà dei suoi post a raccontare la sua vita da vincente nella blograce (perennemente in viaggio, pieno di impegni: e giù descrizioni di cocktail, ristoranti, colazioni e camere d’albergo ); che dichiara al tg3 nazionale che i blogger possono arrivare a guadagnare un milione di euro l’anno; che fa parte dei comitati scientifici di premi per blogger organizzati dalle università (premi che poi fatalmente, su decisione degli stessi comitati, si pubblicizzano con campagne buzz e virali – spontanee, per carità, del tutto disinteressate, e lo dico senza ironia – a favore di un certo gadget tecnologico): ecco, che un personaggio così visibile e innervato nella blogosfera dichiari che d’ora in poi una delle sue attività sarà aiutare un’agenzia di buzz marketing a trovare clienti e, si presume, ad assoldare i blogger per fare campagne pubblicitarie artificialmente virali, io lo vivo con un pizzico di sincera preoccupazione.

Non sono il solo, credo: ma ho come l’impressione che i vincoli di vicinanza e consuetudine che legano più o meno tutti i principali commentatori del web, vecchie querce compagne di mille barcamp e altrettanti linkaggi, fungano da freno al formarsi di una circostanziata e energica presa di posizione. Non contro Luca Conti o altri, ovviamente, ma contro questo avanzante, ludico e lievemente decerebrato commercio delle dinamiche sociali e della libera espressione che si sta facendo strada sulla rete.

E contro questa ancor più avanzante confusione di ruoli, contenitori, legami, interessi, influenze e registri che mi appare davvero deleteria e degradante per la qualità del comunicare sul e dal web.

Allora, in conclusione, c’è da chiedersi se noi che nuotiamo, a vario titolo e stile, nelle acque comunicative della rete rischiamo di vederle prosciugate dal buzz marchettaro. Per come la vedo io, certo che no. Però credo che valga la pena attrezzarsi con maschera e boccaglio, che in quelle acque ci stanno per versar dentro un bel po’ di secchi di letame.

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