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Niente coppola e accento siciliano, ma un computer e un account su Facebook. Niente pizzini e Bibbia, ma un account su Skype. Nessuna latitanza in campagna, ma un monolocale con ogni novità tecnologica. Anche la Mafia cresce, cambia e impara. O quasi
Niente coppola e accento siciliano, ma un computer e un account su Facebook. Niente pizzini e Bibbia, ma un account su Skype. Nessuna latitanza in campagna, ma un monolocale con ogni novità tecnologica. Anche la Mafia cresce, cambia e impara. O quasi

C’è qualcosa da rimuovere nell’immaginario collettivo relativo alla Mafia. C’è molto da rimuovere, anzi. Il substrato immaginifico era quello delle auto di lusso, della coppola, dell’accento marcato e dei rituali della corporazione malavitosa. A questa base si sono aggiunte nel tempo le storie dei pizzini, dei messaggi annotati sulla Bibbia, delle case isolate sulle campagne prima dell’arrivo delle Forze dell’Ordine. Se a tutto ciò si aggiunge la fotografia del mafioso attempato, dai lineamenti consumati e dalla forma fisica tutt’altro che curata, si completa un quadro da mettere da parte, da lasciare alla storia per andare oltre.

La Mafia oggi è un’altra cosa, almeno ai suoi vertici. Non ha cambiato i suoi mezzi di sostentamento, non ha certo trasformato il Male nel Bene, ed i suoi argomenti sono oggi come ieri intrisi di violenza e malaffare. Quel che è cambiato, invece, è l’uso degli strumenti e la capacità di accettare il nuovo al fianco della tradizione. Quel che è nuovo, oggi, è la capacità di sfruttare la tecnologia per migliorare il modo in cui si comunica, si trasmette, si condivide e ci si informa.

Non è questo un processo di maturazione senza errori, sia chiaro. Pasquale Manfredi, 33enne, è stato la prima vittima di questo percorso. La sua passione per i social network, ad esempio, lo ha portato ad essere scoperto dagli inquirenti e la sua storia è stata raccontata quasi come una ironica beffa del destino: Facebook, il sito di FarmVille e delle perdite di tempo, dei link condivisi e delle applicazioni “Scopri chi visita il tuo profilo”, è ciò che porta ad un arresto grazie al quale le Forze dell’Ordine possono fare ampio sfoggio di forza ed efficienza. Pasquale Manfredi, inizia tutto qui: quel che è ovvio diventa anche pubblicamente noto, e si viene così a sapere che anche i Mafiosi hanno un computer, hanno una connessione a internet ed hanno un profilo su Facebook. Incredibile, eh? Incredibilmente ovvio. Eppure dietro a cotanta ovvietà c’è tutto un mondo, tutta una serie di conseguenze e tutto un corollario di dettagli che debbono oggi sostituire le auto di lusso, i mafiosi attempati e la coppola d’ordinanza.

Con Pasquale Manfredi arriva sui giornali di tutto il mondo il mafioso di 33 anni, figlio dei figli: sangue del loro sangue, ma con un’esperienza di vita ben diversa. Un mafioso di 33 anni ha dovuto comunque fare i conti anche lui con i videogiochi, con Google e con una tastiera: ha imparato le meraviglie di Google Street View ed ha appreso nel tempo la capacità di installare un software, effettuare un aggiornamento ed aprirsi un account su qualsivoglia servizio online. Chissà, forse scarica film da canali peer-to-peer e, quantomeno per deformazione professionale, sa utilizzare proxy ed altri strumenti per rendere anonimo un IP.

Anche in Inghilterra una storia simile aveva già fatto capolino nei mesi scorsi, con un malvivente pronto a confessare le proprie modalità di comunicazione con l’esterno grazie ai social network. Negli ultimi giorni l’ultimo fatto di cronaca che conferma il nuovo corso della malavita, di quella nuova generazione che non riesce a fare a meno dei bit e che ha scoperto quanto i bit stessi possano essere al tempo stesso pericolosi e preziosi. Rischio ed opportunità, grossi rischi e grosse opportunità.

La nuova storia è quella di Giuseppe Falsone. Di Falsone negli ultimi giorni abbiamo appreso anzitutto l’età: 39 anni. Non un giovanissimo, ma quanto basta per capire quanto un pc possa essere utile quando si è chiusi tra quattro mura e si necessita di comunicare per vivere e prosperare. Falsone era in Francia, all’interno di un piccolissimo monolocale soppalcato «dotato di numerosissimi strumenti informatici». Si inizi a ridipingere il quadro del nuovo mafioso: monolocale, pc, monitor, magari un router. Stampante e scanner, macchina fotografica digitale. Magari un iPad, chissà, tanto per provare subito la tavola magica. Entrano gli inquirenti, scattano le manette e si inizia ad accedere agli strumenti informatici trovati. Si scopre così che Falsone usava Skype e che ben sapeva, quindi, quanto il VoIP possa aiutare tanto nel contenimento delle spese quanto nella fuga dalle intercettazioni. Si scopre che per informarsi il mafioso leggeva online tanto il Giornale di Sicilia quanto il Grandangolo: decine di contatti al giorno, che su Google Analytics sono oggi ben documentati, testimoniano la durata della latitanza francese.

Usa Facebook, dialoga su Skype, cerca su Google e non può fare a meno della Rete. Chissà, forse i suoi pizzini sono oggi degli anonimi tweet (senza geolocalizzazione). Eccolo il mafioso di oggi: il suo profilo è quello di un utente curioso, che conosce le possibilità del web e che, meravigliato da queste ultime, si muove accecato di fronte ai rischi. Non conosce bene i limiti tra libertà e privacy, e così inciampa perdendo quest’ultima. L’utente normale, quando perde la privacy, rischia figuracce, denaro e reputazione. Il mafioso, quando perde la privacy, perde invece tutto.

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