Pubblicità occulta su Twitter: polemica contro le star

Un vizietto di molti personaggi dello star system sta cominciando a innervosire l’OFT (l’organismo di controllo del commercio negli USA) e forse anche Twitter: sul microblogging sono molte le celebrità che inseriscono pubblicità a prodotti e qualcuno sospetta che ci guadagnino pure.

In America li chiamano Twitter-endorser, dichiarazioni che vanno prese sul serio, così come è seria la denuncia dei consumatori che vorrebbero vederci chiaro: un follower di una star deve credere a quei 140 caratteri come una confessione personale oppure è tutta pubblicità? Qual è il confine, se esiste? E dovrebbe essere dichiarato?

Il Guardian ha scritto un interessante articolo dove si spiega come l’Office of Fair Trading abbia iniziato un giro di vite contro gli utenti di Twitter che, in maniera nascosta, appoggiano prodotti e aziende senza indicare chiaramente il loro rapporto con la marca: insomma, pubblicità occulta.

E per far capire come la pensa (essendo un reato) ha intentato una causa contro una società di pubbliche relazioni che è stato scoperto pagava i blogger che scrivevano commenti entusiasti su certi marchi.

In un comunicato, l’OFT definisce la pubblicità “ingannevoli” ai sensi delle norme di concorrenza leale, specificando che “ciò include commenti su servizi e prodotti sui blog e microblog come Twitter”.

Il cattivo esempio l’ha dato subito uno specialista come Snoop Doggy Dog, che ha confessato di guadagnare anche 2.000 dollari per un singolo tweet di approvazione su un prodotto. Tutto esentasse.

Ma forse non tutti sanno che negli Stati Uniti in ogni caso, anche su un tweet, ci deve essere la sigla “ad” (advertising) per dichiarare che quel contenuto è stato pagato. Una legge che non esiste in Italia e in quasi nessun paese europeo.

Che evoluzione avrà questa vicenda? Difficile dirlo, anche perché è sempre più chiaro come Twitter non riesca a rimanere al passo del mercato della pubblicità e il sistema dei tweet promozionali è tutto da rodare.

Che anche in Italia, magari, l’antitrust possa dire la sua, o dovremo rassegnarci a vedere questi organismi lottare “contro” Internet, invece di regolamentarlo per davvero?

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