Non è un paese per startup

Fare innovazione in Italia è complicato: le startup italiane soffrono burocrazia e limiti economici, quelle internazionali si scontrano con le lobbies.
Fare innovazione in Italia è complicato: le startup italiane soffrono burocrazia e limiti economici, quelle internazionali si scontrano con le lobbies.

Risorse umane, finanziarie, competitività con l’estero, sveltezza burocratica e un ambiente predisposto. Al netto delle grandi startup-area nel mondo, caratterizzate da infrastrutture e scelte politiche forti che non si possono improvvisare dall’oggi al domani, un qualunque startupper sosterrebbe che gli elementi basilari per un corretto sviluppo di un’idea di business sono questi. Se l’idea è buona troverà la sua strada, basta che ci sia il minor numero di ostacoli sul percorso. In Italia, con il regime di vantaggio e la legge 221, si è parlato molto di startup innovative, forse si è lasciato intendere che ora siamo un paese come gli altri, che è tutto rose e fiori. Non è così.

Reperire le competenze, i finanziamenti, partire alla pari con tedeschi e inglesi per documenti necessari e accoglienza nel mercato del lavoro, non fa parte della quotidianità di una startup in Italia. Si potrebbero raccontare molte vicende a proposito delle resistenze all’innovazione che ancora oggi si presentano alla porta. Qui se ne raccontano tre, emblematiche: esempi di startup di fama nazionale e mondiale che per il semplice fatto di operare nella penisola pagano uno scotto che altrove non pagherebbero e non hanno pagato.

MoneyFarm: la consulenza è low cost, tranne che per loro

MoneyFarm è un servizio di consulenza indipendente per investire online in ETF (Exchange Traded Fund) con un particolare mix di asset location. L’idea è ottima, ha goduto da subito di buona stampa in Italia e sta avendo successo. Giovanni Daprà, cofondatore e CIO della società, deve concorrere con poche startup europee (inglesi e israeliani soprattutto) che hanno colto questo cambiamento nella consulenza personalizzata a basso costo. Tuttavia per lui l’avversario più ostico è la complessità nel fare business dentro il sistema della finanza nostrana, imparagonabile a quella europea:

MoneyFarm è un business regolamentato da Consob e Banca d’Italia, ma i requisiti patrimoniali richiesti e il burden regolamentare è completamente disallineato con altri paesi, ad esempio il Regno Unito.

Dopo aver superato il primo paradossale ostacolo che impediva per “assenza di requisiti” al fondatore (ex Deutsche Bank) di essere anche amministratore della società, Daprà snocciola un semplice paragone numerico: il tempo di attesa per ottenere la licenza di Società d’Intermediazione Mobiliare è stato di nove mesi e per il tipo di servizio offerto ci vogliono 385mila euro di patrimonio. Nel Regno Unito i mesi si riducono a sei e bastano 50mila euro.

Il divario aumenta con le licenze dalle maggiori possibilità (come la detenzione di attivi della clientela), con costi quasi dieci volte superiori rispetto all’Inghilterra. Anche questo è un drag di competitività perché società con licenze estere possono comunque operare liberamente in Italia in regime di prestazione di servizi sopportando costi inferiori.

Giovanni Daprà, cofounder di MoneyFarm.

Giovanni Daprà, cofounder di MoneyFarm.

Uno dei punti chiave. L’Europa è un singolare oggetto politico e giuridico che ha liberalizzato il mercato del lavoro senza armonizzare il sistema fiscale. Un errore gigantesco, foriero di due conseguenze: i giganti della Rete sfruttano queste contraddizioni per eludere il fisco delle nazioni in cui operano (denaro che sarebbe molto utile per sostenere le agende digitali, per dirne una); le società estere che per varie ragioni possono contare su un vantaggio economico, dalla busta paga dei dipendenti alla contrattualistica e burocrazia, puntano tutto sul vero valore che è il servizio, non dovendo dissipare denaro come i concorrenti italiani. Questo vantaggio rischia di non assottigliarsi mai, persino quando le startup italiane partono prima e partono meglio.

Operando nella finanza, si potrebbe pensare che tutto sia dovuto a chissà quale potere oscuro di organismi istituzionali, come Banca d’Italia. Lo smentisco: ho stima di loro, so come lavorano e non sono certo ostacolo all’innovazione. È il sistema in generale che sembra fatto apposta per impedire uno sviluppo. Il numero di documenti che dobbiamo continuamente produrre, noi, ma anche gli istituti di credito per la loro parte, è pazzesco. Un peccato, perché il nostro settore è tutt’altro che consolidato: stiamo innovando e lo stiamo facendo per primi.

Uber: conducono i taxi di NY, ma qui è rappresaglia

C’è un famoso politico, recentemente caduto in disgrazia, che ricorda ancora cosa significa toccare i taxi in Italia. Ora lo sa anche Benedetta Arese Lucini, general manager di Uber in Italia.

Il sistema applicativo inventato in California da Travis Kalanick nel 2010 dopo un viaggio a Parigi nel quale non gli riuscì di trovare un taxi, è esploso in tutto il mondo. L’idea è semplice e rivoluzionaria: un network chiuso che favorisce l’incontro tra domanda e offerta di auto a noleggio con conducente (NCC). L’aderente è un soggetto privato, che paga una commissione alla società, la quale funge più da consulente di marketing che da mediatore dato che la transazione rimane esclusiva tra autista e cliente.

In due anni Uber è diventato un fenomeno globale. TechCrunch ha dimostrato che sta crescendo più velocemente della eBay degli inizi. Si è stabilita in 25 città americane, a New York è diventata ufficialmente l’applicazione che gestirà i leggendari taxi gialli, è sbarcata oltre Atlantico a Parigi, Berlino, Londra, Monaco, Sidney, Singapore, da qualche mese a Milano e Roma.

In Italia, guarda caso, sono sorti i problemi più clamorosi. C’è tutto il peggior armamentario italico: minacce per mail e verbali allo staff, scontro feroce con le categorie, intralci con la polizia locale, litigi coi tassisti. Nella Capitale i conducenti hanno addirittura paura di ritorsioni fisiche. Durante l’inaugurazione milanese la polizia locale, avvisata da qualcuno, ha posto sotto sequestro due licenze, che però sono state subito dopo restituite.

Il rancore generale lo posso anche capire per un mercato che fatica a comprendere la competizione, non capisce che porta anche crescita. Non mi aspetto ampie vedute da chi tutti i giorni guida il suo taxi e magari percepisce, erroneamente, Uber come una minaccia. Però mi aspetto che ci sia comprensione umana e rispetto per noi giovani che stiamo portando questa realtà in Italia, e soprattutto è inaccettabile dare ultimatum ai nostri partner minacciando che verrà rinnegata la tessera FAI (associazione di categoria NCC) a chi continuerà a lavorare con noi.

Il team di Uber Italia. La prima a destra è la general manager Benedetta Arese Lucini. Laureata alla Bocconi, è tornata in Italia dopo dieci anni negli Stati Uniti, in Europa e nel sud esta asiatico.

Il team di Uber Italia. La prima a destra è Benedetta Arese Lucini. Laureata alla Bocconi, è tornata in Italia dopo dieci anni negli Stati Uniti, in Europa e nel sud est asiatico.

L’argomento è delicatissimo e Uber stessa sa che la sua applicazione – basata sull’uso dello smartphone – è andata a coprire un settore formalmente differente da quello del trasporto in taxi, regolato in tutte le principali città del mondo secondo criteri molto tutelati, ma che ha finito per scontrarsi con gli interessi della categoria. Anche perché la legge italiana, aggiornata nel 2008, impedirebbe probabilmente questo tipo di servizio a un tale livello di disponibilità e circolazione se non fosse che è inapplicata per mancanza di decreti attuativi.
Il fatto incredibile è che le associazioni di categoria hanno tenuto nel cassetto applicazioni simili perché convinte che fossero illegali, salvo poi vedere una startup mondiale arrivare col suo prodotto. E si è scatenato l’inferno.

Quando sono tornata in Italia dopo dieci anni in giro per il mondo, dove mi ero occupata di seed di investimento, di startup, di e-commerce, mi sono trovata subito i bastoni tra le ruote. Paradossalmente l’Italia è il paese ideale per noi, perché ha una legge non particolarmente restrittiva e abbiamo sempre saputo che anche qui i tassisti avrebbero fatto resistenza. Eravamo pronti, ci siamo confrontati in tutte le città con problemi simili e i giudici ci hanno sempre dato ragione. In Italia, invece, al momento non so di azioni legali ufficiali: qui si preferisce discutere all’infinito, alzare i toni, contrastare le idee innovative invece di stabilire molto semplicemente chi ha ragione e accettare la sfida.

Le accuse rivolte a Uber sono di varia natura e molto complesse, più volte riportate dalla cronaca nazionale e sugli stessi blog dove scrive Benedetta o dove è intervenuta. In attesa di capire chi ha ragione e chi torto, sono le differenze notate con gli altri paesi ad essere interessanti, perché illuminano altre zone d’ombra della vita di una startup in Italia.

I nostri partner aumentano il loro reddito settimanale anche del doppio, e su tutte queste tratte viene applicata l’IVA italiana e una tassa sul reddito. Tutte cose buone per questo paese e per il mercato. Lavoriamo anche con altre startup, partecipiamo ad eventi e ci confrontiamo. Uber alle spalle ha finanziamenti e una grossa società, ormai, ma in ogni città operiamo come una startup con budget minimo e tanta voglia di innovare localmente. Eppure questo non lo si riconosce. Negli Usa abbiamo avuto più cause legali, che hanno portato chiarezza, e meno resistenze all’innovazione in sé. Le leggi non sono state utilizzate per difendere dei monopoli, bensì gli utenti. Una volta stabilito cos’era meglio per loro, abbiamo avuto l’ok.

Un altro punto chiave. La resistenza all’innovazione in Italia passa spesso per la burocrazia. Troppe leggi e confuse indeboliscono quelle necessarie, sostenendo lo status quo e chi le conosce, spesso favorendo dei monopoli di fatto che si rivelano molto aggressivi. Col risultato di soffocare il mercato e la creazione di nuovi posti di lavoro. Che piaccia o meno ammetterlo, ci sono settori potenzialmente innovabili che sono come cortili recintati.

Jusp: il genio è italiano, ma incassa di più chi arriva dopo

Trasformare lo smartphone in un Pos. È questa l’idea di Jusp, una startup nata in Italia che ha fatto parlare di sé in tutto il mondo. Jacopo Vanetti, 25 anni, insieme all’amico Giuseppe Saponaro hanno ricevuto soltanto poche settimane fa un finanziamento di sei milioni di dollari. Celebrati ovunque, la storia di Jusp è spesso raccontata nei suoi aspetti positivi. Giustamente. Eppure anche questa vicenda, se vista dietro le quinte, racconta molto bene cosa significhi essere startupper in Italia. Soprattutto se si parla di fund-rising.

Lo ammetto con rammarico: essersi giocati la carta in casa è stato un problema. La somma che cercavamo era troppo alta per l’Italia e abbiamo perso molto tempo per trovarla. Dopo essere stato nella silicon valley non lo rifarei. Nonostante fossimo il primo player che avesse una soluzione per il mercato europeo, i fondi raccolti si sono rivelati inferiori agli standard dei competitor.

Jacopo Vanetti, cofounder di JUSP, a una conferenza.

Jacopo Vanetti, cofounder di JUSP, a una conferenza.

Bastano pochi numeri. Mentre Jusp cercava benzina da mettere nel motore – le risorse iniziali erano ingenti essendo una startup che si voleva occupare anche di hardware, cioè del lettore da applicare allo smartphone – i concorrenti tedeschi e del nord europa raccoglievano più denaro (tra i 41 e i 20 milioni) e in meno tempo. Il risultato è paradossale: il device, lungamente e pazientemente studiato ad hoc dal team italiano, è diventato appetibile per chi ha talmente più risorse di potersi permettere di acquistarlo mantenendo un vantaggio economico sul servizio.

Dei player più vicini a noi, due compreranno il device da una società esterna e due ci hanno proposto di acquistare il nostro. Questo significa che noi abbiamo lavorato molto per convincere il mercato a sostenerci, mentre gli altri acquisivano più risorse nonostante siano partiti dopo di noi.

Come nel caso di MoneyFarm, enti controllori e circuiti bancari considerano questa startup come un cliente in grado di ampliare il bacino di utenza, quindi non hanno alcun interesse a frenarlo. Ma il sistema del vecchio continente non aiuta l’Italia e le direttive europee non bastano.

Dovessi fare una classifica dei paesi più rigidi nel settore di cui mi occupo, direi che siamo tra i peggiori. Mentre Inghilterra e Germania sono molto più avanzate.

Qualche punto fermo

Che si tratti di consulenza online, di trasporto pubblico/privato, di device innovativi per le piccole transazioni economiche, ma anche di tanti, forse tutti gli aspetti del vivere quotidiano che una startup può modificare producendo valore economico, si incontrano sempre gli stessi ostacoli. Ripercorrendo le storie di MoneyFarm, di Uber e di Jusp, si può provare a riassumerli così:

  • L’Europa ignora l’armonia. Finché mercato del lavoro e fisco non saranno armonizzati – almeno per quanto riguarda le nuove professioni che sono partite all’unisono nella EU – per una startup italiana sarà sempre dura. Un employer tedesco o inglese paga fino al 30% in meno in busta paga rispetto al competitore italiano: così non si va da nessuna parte, perché l’imprenditore ambizioso è tentato di andare all’estero per poi tornare in Italia solo col suo servizio, che però creerà meno posti di lavoro e meno qualificati. Per non parlare delle direttive europee sulla concorrenza, che sono spesso più interpretate che applicate alla lettera. Bruxelles non si accontenti di emanare lenti meccanismi di infrazione: non spaventano più.
  • Corruptissima respublica, plurimae leges, diceva Tacito. La giungla legislativa italiana è soffocante. Intollerante a ogni innovazione, promuove le scappatoie, le furberie, i mediocri, le lobbies politicizzate, mentre scoraggia le startup forti solo della loro idea, magari già testata in paesi più liberali. Non bastano agende digitali o regimi fiscali di vantaggio: è l’intero sistema che deve modernizzarsi altrimenti la sofferenza è solo procrastinata e ucciderle in culla sarebbe quasi un gesto misericordioso. Un paese che lascia in quello stato Pompei, o L’Aquila, non può essere un paese che crede nelle startup. Sembrano discorsi diversi, invece è la stessa cosa.
  • Finanziamenti alle idee, non ai nomi. In Italia c’è il vizio di concedere scarsa attenzione a chi non ha la fortuna di avere un nome (o cognome…) importante oppure una grossa società o partner alle spalle. A volte per ottenere meno della metà dei diretti concorrenti bisogna unire diverse tranche di finanziamento. Dopo il nanismo industriale l’Italia è pericolosamente sul crinale del nanismo post-industriale. Le startup italiane crescono soltanto quando permettono alle realtà più consolidate dell’industria o del capitale di entrare nel board, ma così si finisce col fagocitarle invece di lasciarle spiccare il volo.

Alcuni giorni fa uno startupper italiano che lavora per l’estero ha provocato i suoi colleghi con una domanda postata sulla pagina Facebook Italian Startup Scene: «Che senso ha fare startup in Italia?». I commenti sono centinaia, ognuno dei quali contiene una storia personale, un orgoglio, una sconfitta, una prospettiva o una paura. Tutti sembrano avere un tratto comune: per dare un senso alle cose bisogna lavorare duro. In fondo, questo uno startupper l’ha sempre saputo.

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