Maxi sequestro fallito: i siti pirata tutti online

Gli effetti dell'operazione della GdF sono svaniti. Il problema sta alla base: si colpiscono gli IP invece degli interessi. Perché non si segue il denaro?
Gli effetti dell'operazione della GdF sono svaniti. Il problema sta alla base: si colpiscono gli IP invece degli interessi. Perché non si segue il denaro?

Come ampiamente previsto la maxi operazione di sequestro messa in campo dalla GdF di Roma è già fallita. Tutti i siti di streaming interessati dal sequestro sono tornati accessibili. Oltre agli escamotage noti (il cambio di DNS), il problema tecnico è ormai sotto gli occhi di tutti: col metodo dell’inibizione si censurano siti legali e giudici e inquirenti non possono permetterselo. Il regolamento Agcom, però, è tutto basato su questo approccio: come potrà mai funzionare?

La notizia del maxi sequestro aveva certamente destato scalpore, la Guardia di finanza, dopo un primo approccio di basso profilo, aveva anche organizzato una conferenza stampa. I numeri erano importanti (46 portali) e soprattutto molto noti tra chi è abituato a vedere film e serie TV in streaming. Tuttavia, per chi conosce la Rete era scontato che sarebbe presto finita contro l’inevitabile superiorità del mezzo rispetto alla norma. E così, quando dopo qualche ora molti di questi siti risultavano raggiungibili, era parso che la GdF volesse operare con la dovuta cautela rispetto ai diritti di proprietari, utenti e rispetto agli ISP, pesantemente sollecitati. Ora però è chiaro il sostanziale fallimento dell’operazione. Per quali ragioni?

L’automatismo IP-DNS

Tutto il processo di inibizione all’italiana di un sito considerato illegale può essere riassunto con pochi semplici passaggi:

  • Un giudice emana un ordine di sequestro sulla base della denuncia di un detentore di copyright, oppure di una indagine delle forze dell’ordine (questo secondo caso è quello del sequestro di cui si parla)
  • L’autorità giudiziaria incaricata individua il server contenente il sito, che è (al 99%) residente all’estero.
  • Essendo all’estero e di difficile individuazione, si procede a bloccarlo, cioè a mettere un ostacolo tra l’utente italiano e il sito.
  • Il primo passaggio, il più radicale, è il blocco degli IP, collegati ai quali possono esserci molti sottodomini. Per evitare il rischio di oscurare siti perfettamente legali e censurare contenuti agli utenti italiani, pratica illecita, si preferisce in taluni casi – e comunque l’impugnazione del sequestro porterebbe a questo risultato in pochi giorni se non poche ore – il blocco tramite DNS.
  • Il blocco dei DNS è facilmente aggirabile, così come è ovvio e naturale il cambio dell’estensione di dominio.
  • L’ordinanza di sequestro è di fatto impotente.

Metodo alternativo: seguire il denaro

Da molto tempo si discute della tecnica del follow-the-money, soprattutto negli ultimi due anni caratterizzati dalla discussione a proposito del nuovo regolamento Agcom, che entrerà in vigore a fine mese. Già Stefano Quintarelli aveva proposto in più occasioni questa tecnica, ad esempio durante il periodo di osservazioni sulla bozza. In generale l’ambiente della Rete è convinto sia una valida alternativa al metodo che si potrebbe definire del “blocco alla cieca”.
L’avvocato Fulvio Sarzana, acerrimo avversario del regolamento Agcom, ha sostenuto a più riprese questa teoria, che nella pratica del maxi sequestro – sul quale è stato interessato professionalmente e che quindi ha visto dal di dentro – ha trovato forse la più clamorosa conferma. Dunque, che fare?


L’alternativa esiste ed è molto interessante, ma ci vuole un ripensamento generale. Si tratta di partire dalle analisi bancarie. I siti pirata ricevono donazioni per il loro funzionamento e in realtà i veri protagonisti di questo streaming pirata sono una ventina o poco più, moltiplicati in migliaia di siti e domini continuamente rinnovati. Basterebbe indagare sui conti correnti e seguire il denaro trasferito dai conti online dei donatori, da carte di epayment facilmente tracciabili, sui conti dei gestori di questi siti e questo consentirebbe di individuare i proprietari dei siti pirata e di imputare loro il reato di violazione di copyright con qualche chanche in più di ottenere dei risultati.
Seguire il denaro danneggerebbe sensibilmente la pirateria perché colpirebbe i veri autori del reato invece che oberare gli ISP e violare la libertà di tanti utenti. Perché non si fa? Difficile dare una risposta, forse non tocca neppure a Webnews. Di sicuro, dopo questo ennesimo flop il follow the money dovrebbe tornare seriamente alla ribalta.

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