Il diritto all'oblio sia esteso anche a Google.com

L'Article 29 Working Party chiede che il diritto all'oblio sia esteso anche a Google.com, poiché diventa una facile scorciatoia per aggirare la legge.
L'Article 29 Working Party chiede che il diritto all'oblio sia esteso anche a Google.com, poiché diventa una facile scorciatoia per aggirare la legge.

L’Art.29 Working Party, il gruppo che coordina i Garanti per la tutela dei dati personali a livello europeo, ha dato un ulteriore giro di vite al concetto di diritto all’oblio, radicalizzando il concetto che già è stato finora imposto a livello europeo grazie ad una storica sentenza che ne ha concretizzate le prescrizioni. Quel che si pone innanzi a Google ed agli altri motori di ricerca è qualcosa di estremo: non solo il diritto all’oblio è destinato a colpire le ricerche sul vecchio continente, ma le autorità europee vorrebbero ora estese le rimozioni dei link a livello internazionale. O quasi.

Il comunicato stampa diramato dall’Article 29 Working Party indica con chiarezza il nuovo principio rivendicandone direttamente la paternità: «Il WP29 ritiene che […] le decisioni di de-listing debbano essere implementate in modo da garantite l’effettiva e completa protezione dei dati […]. Limitare il de-listing ai domini europei sulla base del fatto che gli utenti tendono ad accedere ai motori di ricerca tramite i loro domini nazionali non può essere considerato un modo sufficiente per garantire in modo soddisfacente i diritti dei soggetti così come previsto dalle regole. In pratica, significa che qualsiasi de-listing debba essere applicato anche su tutti i domini .com rilevanti». In breve, la deindicizzazione di una pagina dalle SERP di Google.it deve specularmente portare alla deindicizzazione di una pagina dalle SERP di Google.com, e la medesima cosa deve avvenire per Bing, Yahoo e qualsiasi altro motore di ricerca attivo sul mercato.

Il documento redatto dall’Article 29 Working Party ricorda inoltre come il diritto alla protezione dei dati sia qualcosa di esteso a qualsiasi cittadino, europeo e non, e che il giudizio sui singoli casi vada composto sulla base di 13 criteri specifici; in ogni caso, ogni richiesta è un caso a sé e nessuna decisione fa giurisprudenza: i casi vanno giudicati singolarmente nell’ottica dei principi espressi dalla Corte che ha determinato l’inizio delle deindicizzazioni.

Il documento redatto dal team capitanato da Isabelle Falque-Pierrotin (con l’italiano Antonello Soro appena eletto vicepresidente) sarà diramato entro la fine della settimana e fino a quel momento Google, tramite un portavoce, si fa da parte ed evita commenti:

Non abbiamo ancora visto le linee guida del Working Party Article 29, ma le studieremo con attenzione quando saranno pubblicate

Diritto all’oblio e confini

La richiesta dell’UE è particolarmente esigente poiché ambisce ad una garanzia totale del diritto all’oblio. Il principio ha una sua logica, ma sembra trascurare le complicazioni della trasposizione del concetto alla realtà: l’Article 29 Working Party vuole che le estensioni .com dei motori di ricerca non possano diventare una semplicissima scorciatoia per attingere a piene mani da un motore di ricerca privo delle limitazioni imposte dalle normative. Se ciò avvenisse, infatti, ogni sforzo di rimozione dei link sarebbe vanificato dalla semplicità con cui tali rimozioni possono essere dribblate.

A poco vale anche il redirect automatico che Google propone agli utenti per portarli direttamente sulla versione localizzata del motore: non è questa una misura che l’UE ritiene sufficiente ai fini del rispetto del diritto all’oblio. Quel che l’Europa pretende, ai fini del rispetto del diritto, è che qualsiasi cittadino possa veder rispettata la possibilità di nascondere particolari url quando viene cercato un nome specifico sul motore. Se questa prescrizione non può ovviamente valere laddove sono altre legislazioni a regolamentare i motori di ricerca (non è neppur ipotizzabile un’estensione internazionale di una sentenza che ha valore prettamente per la giurisprudenza europea), allora l’unica via d’uscita possibile sembra poter essere quella di un filtro dei motori non in base al dominio di accesso allo stesso, ma in base alla localizzazione dell’utente che compone la query.

Sebbene la semplice analisi dell’IP o del provider di accesso non possa garantire al 100% la provenienza di un utente, al tempo stesso sembra poter essere la misura più efficace: il giro di vite richiesto dall’Article 29 Working Party (di forte matrice francese, sia per la prima sentenza in questa direzione, sia in riferimento alla presidenza del WP29) potrebbe dunque andare in questa direzione, ponendo il veto alla semplicistica soluzione fin qui avanzata da Google e sancendo una modalità che anche altri motori saranno in seguito costretti ad adottare.

Le carte in pubblicazione entro fine settimana potranno probabilmente dire qualcosa di più in tal senso.

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