25 aprile: 70 anni di libertà da mettere in Rete

Il 25 aprile ricorda l'unico vero moto rivoluzionario democratico del paese: la Rete viene paragonata a questo passaggio della storia, ma dipende da noi.
Il 25 aprile ricorda l'unico vero moto rivoluzionario democratico del paese: la Rete viene paragonata a questo passaggio della storia, ma dipende da noi.

Dalla liberazione sono trascorsi settanta anni. Gran parte dei giovani adulti che la fecero non ci sono più, quei pochi rimasti si godono se possono nipoti e bisnipoti: questi ultimi alle prese con aggeggi e tecnologie che i vecchi non capiscono, mentre chi ha i capelli bianchi pensa a quando il mondo era in guerra e si comunicava con i piccioni viaggiatori, un ciclostile, un messaggio radio, una parola che correva tra le montagne, un foglietto nascosto nella cesta di una ragazza giù al paese.

Cosa resta del 25 aprile?

Quanto resta di quella Liberazione, oggi? Agli occhi della generazione Whatsapp, ben poco. Come spiegare che invece è attuale, nel giro dei pochi istanti in cui qualcuno noterà questo argomento tra quelli che scorrono veloci nel feed del social network?

L’anniversario del 25 aprile 1945 – 2015 soddisferà ogni genere di celebrazione, come ogni anno si avrà la sensazione di aver fatto la cosa giusta e di essere sempre meno a pensare sia giusto farla. Non è solo questione di generazioni, di difficoltà a trasferire memoria e valori. Il tempo trascorre, trasforma e ibrida tutte le cose, è nemico di chi non si cura della differenza tra il perdurare e l’esistere. E se il fenomeno della obsolescenza è sempre stato osservabile, la società iperconnessa sembra fatta apposta per accelerarlo e arrivare a una storia fragile.

A una prima occhiata si può pensare che se quella generazione di partigiani avesse avuto Periscope, o Twitter, o Google, avrebbe vinto la guerra. Forse la guerra non ci sarebbe mai stata. Ma è un pensiero superficiale, che casca nel mito rousseauiano della bontà di Internet, del World Wide Web come espressione massima di libertà. Peccato però che ogni passaggio tecnologico nella comunicazione è sempre stato accompagnato da un uso spregiudicato delle sue potenzialità e si è quasi sempre presentato con un altro volto. L’invenzione della stampa ha scatenato di fatto secoli di guerre di religione (prima di Gutenberg non era possibile leggere da soli la Bibbia, presupposto del Protestantesimo), quella della radio ha fornito il mezzo ideale dei movimenti totalitaristi. Probabilmente il linguaggio di cinema e televisione ha propagandato lo stile di vita americano col quale si è imposta anche la sua politica economica mondiale. Le multinazionali sono l’estensione di quel potere, eppure anche una dimensione altra, meno politica e più industriale/culturale. E soprattutto globale.

La Rete è il nuovo 25 aprile?

Oggi la rete si candida a cambiare il mondo un’altra volta, ma qualche recente delusione consente di evitare la retorica e chiedersi: cambiare come? Mettere in fila l’esito della primavera araba, il caso WikileaksAssange, il Datagate e l’esempio di Edward Snowden, significa affrontare il disinganno degli auspici libertari degli anni Novanta e primi anni duemila. La rete non è assolutamente più quella di vent’anni fa, né tecnicamente, né economicamente, né filosoficamente. La generazione dei padri di Internet e anche del Web ha conosciuto una rete che non esiste più, quella dell’interoperabilità assoluta, un luogo dove chiunque poteva prendere software da qualunque luogo, manipolarlo e installarlo facendolo funzionare su qualunque computer.

Oggi la rete è composta di snodi, di cortili recintati, ha vinto la reintermediazione dei software di proprietà. Sul mobile questa dinamica si è ulteriormente estesa perché privilegia i gatekeeper che possono decidere cosa si può usare o meno, mentre i server sono servizi di privati che forniscono l’habitat delle proprie piattaforme, dunque si aprono battaglie nei trattati internazionali per stabilire dove questi dovrebbero avere sede. I dati sono il nuovo petrolio e chi li controlla non ha bisogno di altro.

Essendo cambiate le frontiere degli spazi di espressione, al contempo tanto più grandi e tanto più controllati, cambia anche il senso della libertà stessa di espressione. La tensione nella casa di vetro è sempre più alta: miliardi di persone vogliono la rete come bene di prima necessità. Non viene più vissuta come uno strumento di lavoro – come poteva essere un cavallo o una macchina per scrivere – ma come l’acqua, necessaria per fare agricoltura. Questo comporta che le persone entrano volontariamente in una specie di programma globale di sorveglianza, come se in ogni bicchiere di quell’acqua ci fosse sempre una particella minuscola di veleno per la democrazia e i diritti fondamentali. Eppure potrebbe e dovrebbe essere garantita e sicura per i cittadini.

La pessima reputazione della politica impedisce tuttavia di metter mano alla rete con delle regole che evitino che queste stesse regole siano dettate soltanto dai grandi interessi, e il discredito generale e reciproco tra istituzioni democratiche, web company e movimenti di opinione appesantisce il clima, costringe all’immobilità, incoraggia la balcanizzazione. Qualche luce di speranza c’è (ad esempio la net neutrality negli Stati Uniti), però in Europa si dichiarano battaglie di principio sulle posizioni dominanti di mercato degli over the top quando alla prova dei fatti vincono continuamente le versioni antagoniste di un protezionismo, come quello sul copyright, che potrebbe devastare il pubblico dominio e la creatività delle persone nei prossimi anni, la stessa capacità di utilizzare la conoscenza in un mondo disegnato per convincerci che tutto quel che utilizziamo sia di proprietà di qualcun altro, anche quando lo paghiamo interamente.

Il 25 aprile siamo noi

Di fronte a tutto questo, la Liberazione diventa un riferimento culturale ancora validissimo. Smontati i miti, accolte le contraddizioni, individuati gli avversari, in campo ci sono le nuove generazioni e la possibilità concessa soltanto a loro di decidere cosa essere in futuro, per cosa lottare e impegnarsi. Non può deciderlo la Rete, perché nasce come protocollo neutrale ed è – come spiega brillantemente il Cluetrain Manifesto – un luogo gravitazionale, fortemente semiotico.

La rete è tutto ciò che facciamo con essa: se l’useremo con lo spirito e il coraggio dei partigiani, non c’è dubbio che costruirà democrazia. Se invece saremo conformisti e pigri, costruirà regime.

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