Storytelling non è fare: è essere

Eni ha inaugurato il progetto Eniday con una presentazione di ampio respiro sul concetto di storytelling per le grandi aziende: coraggio, apertura, verità.
Eni ha inaugurato il progetto Eniday con una presentazione di ampio respiro sul concetto di storytelling per le grandi aziende: coraggio, apertura, verità.

C’è un messaggio profondo che traspare dalla presentazione che ha tenuto Eni presso la Triennale di Milano nella serata di ieri: abbracciare lo storytelling non è un modo di fare, ma un modo di essere. L’occasione è quella del taglio dei nastri ufficiale di Eniday, opportunità per raccontare una volta di più quanto Eni sia entrata di una nuova fase dal punto di vista della comunicazione e intenda pertanto rendere tutti partecipi di questa svolta. Una svolta difficile, a maggior ragione per una azienda di caratura internazionale.

Eniday è un nuovo inizio e la neonata pagina Facebook del gruppo ne è complemento. Tutti assieme, questi tasselli rappresentano il volto nuovo del cane a sei zampe nei confronti del mondo esterno. Ma tutto ciò sarebbe risibile se si trattasse di mera azione comunicativa “alla vecchia maniera”: si potrebbe pensare ad una sorta di lifting, con tutti i significati ed i sospetti che andrebbe a celare. Invece appare chiaro come la svolta sia reale poiché improntata proprio al realismo: fare storytelling significa raccontarsi, aprirsi, spalancare le porte per chi vuole entrare. Non si fa storytelling senza sporcarsi le mani in favore dell’accoglienza: l’azienda che intende raccontarsi accetta anzitutto un processo di cambiamento e solo a questo punto è realmente pronta al grande passo.

Marco Bardazzi, Direzione Comunicazione Esterna Eni, introduce Eniday

Marco Bardazzi, Direzione Comunicazione Esterna Eni, introduce Eniday

Eniday: una bella storia da raccontare

Eniday ha già visto i natali da alcune settimane ed ha portato online alcune storie estremamente interessanti sulla vita e sull’energia che fluiscono all’interno dell’azienda Eni. Si va dai lavori sulle piattaforme marine alle ricerche che hanno portato alla scoperta del giacimento di Zohr, il tutto con piglio divulgativo e grandiose immagini a corredo. La materia prima di Eniday sono le storie: piccoli pezzi di azienda che emergono, trovano la luce e tendono la mano a chi, all’esterno, possa esserne incuriosito. La comunicazione non è più muro, ma ponte: è questa la grande svolta che si cela dietro un annuncio di questo tipo.

Eniday vuole raccontare l’energia in modo innovativo, con la creatività e gli strumenti digitali di un network di talenti internazionali. Gli autori sono giornalisti, fotografi, videomakers, esperti di infografica e big data. Sono esperti di tecnologie applicate al mondo dell’energia e dello sviluppo sostenibile.

Nello stesso giorno in cui il gruppo ha accompagnato in partnership la realizzazione di State of the Net 2015 incentrato sul mondo degli algoritmi, Eni estende il proprio raggio di azione puntando le luci dei riflettori sulla nuova iniziativa interna con cui si intende cambiare l’approccio dell’azienda verso il mondo esterno e viceversa. L’introduzione al progetto è affidata a Marco Bardazzi, direttore della comunicazione esterna Eni, il quale definisce con un gioco di parole il perimetro del progetto: Comunicazione, Contenuti, Condivisione, Contaminazione, Comunità, Conversazione.

Una serie di “C” che racchiudono modalità e obiettivi, definendo in modo preciso il passaggio dalla comunicazione “broadcast” alla comunicazione “share”. Ed a queste parole se ne aggiunge una in modo silente, ma palese: “Cambiamento”. Perché Eniday è anzitutto questo: rottura con un certo modo di fare comunicazione aziendale, proiezione verso un futuro fatto di nuovi equilibri, costruzione di una community e di una reputazione tali da consentire un dialogo efficace attraverso la rete. L’egemonia televisiva è terminata, l’audience non è più la metrica principale, il marketing stesso è plasmato da queste nuove dinamiche: l’azienda non può rimanere aggrappata alla mera reiterazione del passato poiché i modelli su cui i vecchi processi vengono applicati non restituirebbero più la medesima efficacia. Una scelta di coraggio, ambizione e lungimiranza, quindi: raccontarsi vuol dire aprirsi e mettere in gioco parte di sé. Presentarsi, per diventare parte di una comunità. Quanto non c’è, per crearla ex-novo.

Marco Bardazzi: storytelling è conversazione con una community

Marco Bardazzi: storytelling è conversazione con una community

Storytelling è verità

Il primo ospite a prendere parola è il giornalista Gianni Riotta, al quale spetta il compito di sottolineare proprio la radicalità del cambiamento. Secondo Riotta una azienda non può fare vero storytelling e vera comunicazione se prima non riprogetta i propri meccanismi interni per “pensare in digitale“. Il digitale non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza: non esistono meccanismi di traduzione tali da consentire un semplice adattamento delle vecchie procedure, dunque occorre riprogettare l’azienda affinché sia organizzata per produrre contenuti, gestire i messaggi, ricevere i feedback e partecipare alla conversazione. Essere parte della comunità significa esserci dentro, non di fronte. Significa essere tra il pubblico, non in cattedra. E il cambiamento di prospettiva, soprattutto per una grande azienda, è radicale.

David Bowen, fondatore della Bowen Craggs & Co., focalizza invece l’attenzione sul sito Web corporate. Eni nella fattispecie è il sito numero due al mondo nella speciale classifica del gruppo di consulenza, ma con la nuova versione in arrivo (piccola anticipazione offerta dallo stesso Bardazzi) si punta chiaramente alla vetta. Secondo Bowen il sito Web è troppo spesso sottovalutato, ignorando quanto può invece essere importante nel comunicare cosa è e cosa fa l’azienda. Il sito corporate è il primo luogo nel quale si cercano informazioni, si approccia una relazione, si cerca assistenza, si cerca il prodotto, si approfondiscono temi finanziari e molto altro ancora. Per questo deve pertanto essere:

  • Utile, per fornire le risposte cercate;
  • Informativo, affinché l’affidabilità riconosciuta eviti che i messaggi passino prima per pagine incontrollate come Wikipedia che non per un canale ufficiale;
  • Brand-building, affinché sia il volto su cui costruire la propria credibilità;
  • Coinvolgente, in grado di catturare l’attenzione

La cura dei dettagli, la creatività, la focalizzazione degli obiettivi di comunicazione e una forte governance di fondo sono elementi complementari che consentono la gestione duratura ed efficace del sito. In tal senso, il consiglio di David Bowen è quello di essere prudenti nella forma (osare troppo potrebbe farsi ostacolo, allontanando il lettore che richiede facili fruizioni) e radicali nei contenuti (l’azienda deve aprirsi, sbilanciarsi, appoggiarsi alla community e farsi appoggio per la stessa: deve contaminarsi e lasciarsi contaminare, pena la mancanza di contatto e di commistione con chi si presta al dialogo).

Shane Snow porta sul palcoscenico della Triennale l’esperienza di Contently sgombrando fin da subito il campo da ogni dubbio: «chi racconta le storie controlla il mondo». Questo per un motivo meno superficiale di quanto potrebbe apparire: raccontare ai creduloni è infatti roba antica, non più applicabile e scarsamente praticabile (soprattutto nel mondo online, fatto di commenti e di feedback incrociati); raccontare e raccontarsi è il modo più semplice ed efficace per creare empatia, stabilire una relazione, stimolare coinvolgimento. Forma e contenuto devono però essere all’insegna della qualità assoluta, poiché è la qualità a stabilire l’intensità di un messaggio: solo le buone storie sortiscono effetti. Ma nel discorso di Shane Snow si chiude il cerchio dell’intero dibattito: per creare un’aura di fiducia attorno a sé, l’azienda che si affida allo storytelling deve imparare ad affrontare la community mettendo in piazza la realtà e confermando giorno dopo giorno la propria affidabilità.

Questo vuol dire fare storytelling: ispirarsi alla verità e improntare tutto il proprio messaggio su un approccio sincero e trasparente. Solo così la community può credere nell’azienda. Ma non si tratta di un valore che si possa creare nel giro di pochi giorni: la fiducia è un asset che si conquista solo nel lungo periodo, attraverso conferme e incroci di sguardi.

Questo è Eniday: l’inizio di un percorso, una inversione di rotta, la volontà di costruire un rapporto. Eniday è una mano tesa, una porta aperta. Una bella storia, piena di energia, pronta per essere raccontata.

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