Banda larga: la risposta non è 42, ma Europa

Il discorso di Matteo Renzi ha preso in carico anche la banda larga, ma il suo governo non ha ancora speso un solo euro: dipende tutto dall'Europa.
Il discorso di Matteo Renzi ha preso in carico anche la banda larga, ma il suo governo non ha ancora speso un solo euro: dipende tutto dall'Europa.

Kafka sosteneva che bugia e confessione sono la stessa cosa, e forse la slide ormai mitologica di Matteo Renzi sulla banda larga ne è un esempio perfetto: non potendo dire esplicitamente di non avere alcun ruolo nella progressiva estensione della banda larga, il presidente del Consiglio ha fornito un numero – impreciso – grazie al quale è più facile stabilire la verità. La questione digital divide in Italia è annosa e di complicata soluzione, e le componenti che potranno determinare un miglioramento dal penultimo posto in classifica, davanti alla sola Grecia, non si esauriscono a livello nazionale. Il Belpaese ha bisogno di una risposta europea.

L’Italia sta vivendo da qualche tempo una fase enormemente complicata del quadro della diffusione della banda larga e ultralarga. I motivi sono diversi, ma in sostanza si tratta di due conflitti, quello tra privati e Stato, che hanno idee diverse sul tipo di connettività da adottare, e quello tra Stato e Regioni per la ripartizione dei fondi stanziati (2,2 miliardi di euro) per il piano nazionale ultralarga. Una situazione a macchia di leopardo che vede il sud arrivare a 30 mbps nel 75% della popolazione e a 100 mpbs in scuole, ospedali e pubbliche amministrazioni, grazie all’intervento del piano EuroSud dell’allora governo Monti. Investimenti accompagnati dalle regioni meridionali (molto hanno fatto Puglia e Calabria) che hanno persino anticipato gli obiettivi europei del 2020. Al nord, invece, ha contato molto di più l’intervento di mercato delle aziende che hanno partecipato ai bandi o investito direttamente per portare connettività, generalmente a 30 mpbs, considerando i 100 fuori mercato e privilegiando l’architettura cabinet. Per colpa, secondo molti osservatori – tra i quali si raccomanda di seguire Alfonso Fuggetta – dell’incapacità politica di realizzare un sistema di regole sull’unbundling della fibra at home che garantisca tutti gli operatori interessati.

Un buon consiglio per capirci qualcosa e non restare alle slide è affidarsi a Infratel, la società in capo al MISE che si occupa della mappatura del piano e della sua attuazione. Dagli open data del sito e dall’ultimo report aggiornato alla consultazione pubblica si evince che la scorsa primavera l’architettura FTTN (Fiber to the Node, per connessioni a 30 mbps) era al 26%, mentre la copertura con architettura FTTH, FTTB e FTTDP (idonee ai 100 Mbps) era di poco superiore al 10%. Queste percentuali raccontano molto meglio di quel “42” il problema italiano che la riunione prevista domani della Conferenza Stato-Regioni dovrebbe cercare, per l’ennesima volta, di risolvere.

Da dove viene quel 42?

Di fronte a questo quadro di sviluppo, da dove viene questa percentuale sparata dall’esecutivo? In sostanza si tratta della somma della percentuale di crescita del mercato libero, un + 20% di Telecom, Fastweb, Metroweb, più un altro 22% del completamento del piano per il sud, che pur essendo nato nel 2012 si concluderà in questo semestre (il bando è stato vinto da Telecom). Ruolo avuto dall’attuale governo in questa crescita, più precisamente al 46% di copertura? Nessuno. Il governo ha invece stanziato 2,2 miliardi per l’implementazione del piano ultralarga, e considera di movimentarne 12 in totale nei prossimi anni, per un progetto più centralizzato che vuole uniformare la copertura. Uno scopo nobile, perché di fatto intende coprire aree bianche e grigie tra mercato e regioni, ma ha due difetti gravi: non fa leva sulle politiche di coinvestimento dei privati e soprattutto ha bisogno dell’ok di Bruxelles. Per riuscire a dirottare questi fondi dove adesso servono, visto che il sud ha fatto meglio, l’idea sul tavolo è una newco della banda pubblica sostenuta da questi 2,2 miliardi compartecipata da tutte le Regioni comprese quelle del sud, che in cambio rinunciano a una fetta di questi stanziamenti. Più facile a dirsi che a farsi.

L’Europa e la concorrenza

Da parecchio ormai l’Europa malsopporta l’approccio italiano al digital divide, considerato a rischio distorsione del mercato. Il centro-nord sarà inevitabilmente più interessato dall’intervento di copertura al 2018 dove si dovrebbe arrivare all’incirca a un 60% nazionale di connettività all’armadio. Il punto però è che al centro nord sono già intervenute le aziende e il piano nazionale rischia di sembrare ridondante e distorsivo del mercato, anche per l’oggettiva difficoltà a determinare le aree svantaggiate e quelle a libero mercato. Dovendo notificare il piano all’Europa, che non l’ha ancora ricevuto, i tempi sono ormai contingentati: se anche fosse presentato domani, ci vorrebbero almeno due mesi per la risposta, più le eventuali osservazioni, più 4 mesi per un bando regolare sugli scavi e la messa in posa. Risultato? È impossibile spendere i soldi previsti nel 2016 per il piano nazionale, che il MEF non darà al MISE. Il ministero delle finanze è come un bancomat: dà soldi se si inserisce la carta. Senza il consenso europeo al piano e un bando, non c’è nulla da mettere nel bancomat e il MEF si terrà i primi 300 milioni previsti.

La morale del nulla di fatto (ancora)

La morale è che il governo non ha attualmente speso un solo euro di quelli stanziati per la banda ultralarga e ha un progetto che fa storcere il naso alle Regioni e potenzialmente anche all’Europa, presso la quale non è ancora stato notificato. Che questa situazione potesse essere rappresentata in una conferenza sui primi 24 mesi dell’esecutivo Renzi era difficilmente immaginabile. Invece è andata così. Il guaio delle piccole bugie, dette probabilmente per incoraggiare tutti a fare di meglio, è che hanno bisogno di altre bugie per restare in piedi. Invece un po’ di chiarezza sarebbe tanto salutare.

Ti consigliamo anche

Link copiato negli appunti