Comunicazione, informazione, che tensione

Le aziende comunicano con la qualità di una testata giornalistica, cercando il rapporto diretto con il pubblico: è colpa, o merito, dei social media.
Le aziende comunicano con la qualità di una testata giornalistica, cercando il rapporto diretto con il pubblico: è colpa, o merito, dei social media.

Gli uffici stampa delle aziende ormai producono articoli di scenario, commentano la cronaca, producono servizi video, gestiscono magazine online e dialogano direttamente con il pubblico. Il giornalismo si sente accerchiato da tutta questa disintermediazione, che va dal primo ministro alle grandi imprese, che parlano direttamente col loro pubblico. Di tutto quel che si può dire, una cosa è certa: senza i social questo non sarebbe stato possibile.

Il confronto sulle pubbliche relazioni nell’era digitale (video) tenuto al Festival di Perugia ha cercato di mettere a fuoco un cambiamento che ha assottigliato i confini tra informazione e comunicazione. Moderati da Jacopo Tondelli, ne hanno discusso i referenti di Telecom Italia, Sky, Eni, Nestlè, Google, insomma dei pezzi grossi della comunicazione che di mestiere non fanno gli editori, ma hanno relazioni così costanti con il mondo dell’informazione da averne in qualche modo appreso le tecniche. E sono talmente impegnati sul fronte della comunicazione coi loro clienti da aver influenzato l’informazione stessa.

Ognuno ha la propria esperienza, le aziende hanno fatto ricorso a strumenti differenti (anche se col tempo tendono ad assomigliarsi), ma tutte partono da un punto decisivo: portare i propri contenuti ai target di riferimento, agli utenti, ai clienti, al proprio pubblico, vuol dire occuparsi della loro produzione, di cercare le persone dove sono, raggiungerle coi mezzi più semplici. Per Paolo Artuso (Telecom), «i contenuti sono dappertutto, le aziende devono trovarli e intessere comunità di più persone»; Erika Mandraffino (senior VP rapporti media di Eni), evidenzia i contenuti interessanti, le relazioni con un pubblico più ampio e l’internazionalità come i tre punti principali della comunicazione della sua azienda; Simona Panseri, dall’alto della sua posizione di direttore comunicazione per il sud Europa di Google, si preoccupa della rapidità di diffusione delle informazioni, cosciente del fatto che è proprio Big G a mettere a disposizione di tutti degli strumenti che hanno quasi un carattere neutrale rispetto agli obiettivi di questa comunicazione, mantenendo la velocità come premessa valida sia per i giornalisti che per gli uffici stampa; Manuela Kron, direttore corporate affairs di Nestlè considera le aziende di oggi più agili nel loro modo di comunicare, che si riflette poi in una maggiore autorevolezza agli occhi del proprio pubblico; Flavio Natalia, direttore della struttura magazine di Sky, aggiunge che il mobile ha cambiato tutto, e la sfida di questa velocità, agilità, qualità, si gioca nell’aiutare una opinione pubblica disorientata dal sovraccarico informativo.

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Tutta colpa dei social

Quando Eni decise di rispondere in diretta su Twitter a un servizio in differita di Report, la trasmissione di Rai3, successe il finimondo, a dimostrazione di come alle molte parole spese in questi anni sulle pubbliche relazioni e i social media non era seguita una reale consapevolezza dei giornalisti e dell’opinione pubblica.

Eppure, il confine tra comunicazione digitale e informazione, nel caso di queste aziende, è cambiato per sempre e non da oggi. Eni investe in comunicazione digitale dal 2008 e con EniDay racconta il dietro le quinte dell’azienda. Ovviamente chiedendosi quanto e cosa si vuole raccontare.

Insomma, sarebbe “tutta colpa dei social”, i quali sono però un’arma a doppio taglio: una volta che si sbarca in quell’habitat, l’azienda percepisce subito l’esigenza di una maggiore trasparenza, quel pubblico non perdona, «è il cardine», racconta Daniele Chieffi, «della reputazione digitale per il sistema informativo che ti compete». Le aziende sono ormai tutte media companies, con teste pensanti che comunicano attraverso PR.

Intervista a Daniele Chieffi

Daniele Chieffi, il responsabile dell’ufficio stampa Web, del social media management e del reputation monitoring di Eni, si aggira per l’Hotel Brufani, il cuore del festival del giornalismo, sentendosi doppiamente a casa. L’azienda per cui lavora è main sponsor della manifestazione, e in questi giorni incontrerà moltissimi suoi ex colleghi, essendo lui un giornalista professionista. Un tempo si sarebbe detto che ha “saltato la staccionata”, ma il punto è proprio questo: si può ancora dire così?

Chieffi, la senzazione è che un tempo era più semplice: è corretto?

Non c’è dubbio. Nel mondo analogico la differenza tra comunicazione e informazione era sensibile. Oggi non è più così, gli schemi saltano perché le aziende hanno bisogno di comunicare alle persone, e ovviamente ciò che è interessante per loro sono le informazioni.

Un problema falso e uno vero…

Che le aziende stiano rovinando il sistema. Non è affatto così, non siamo entrati con le scarpe sporche nel tempio dell’informazione, le aziende non smettono mai di comunicare sé stesse, solo che lo fanno in un modo diverso. Il problema vero è che se, poniamo per ipotesi, la mia azienda produce una inchiesta di scenario sul maghreb, sulla base delle informazioni che ha perché opera in quella zona, è informazione o comunicazione? Entrambe le cose e questo può confondere.

C’è qualcosa che hanno detto le imprese durante il panel che le è piaciuto particolarmente?

Mi sembra che quest’anno, più degli anni scorsi, si riesca a parlare di questo tema senza falsi pregiudizi. Non siamo informazione giornalistica, le aziende non possono porsi come watchdog del potere, ma informare i cittadini sui loro business è una esperienza che fa bene a tutti.

Daniele Chieffi, alla newsroom del Festival del Giornalismo di Perugia.

Daniele Chieffi, alla newsroom del Festival del Giornalismo di Perugia.

A proposito di pregiudizi: dopo molti mesi, a freddo, cos’è rimasto della diatriba Eni-Report?

Non ho cambiato giudizio. Avevamo la necessità di intervenire col nostro punto di vista in un formato televisivo che non lo concedeva. Erano informazioni delicate e abbiamo usato il canale che avevamo, Twitter, secondo noi l’unica piattaforma in grado di competere con i sistemi televisivi. Nessuno avrebbe letto quattro pagine di risposte, e così le traducemmo in un nuovo formato. Non è questione di vero o falso, è vero quello che dice Report, è vero quello che dico io azienda dando altre informazioni.

Jay Carney, l’ex capo ufficio stampa di Barack Obama, oggi ad Amazon, ha risposto a Mario Calabresi durante il loro incontro che un tempo leggeva i giornali e parlava coi giornalisti, mentre oggi legge i giornali e parla coi giornalisti. Condivide?

Assolutamente, sto facendo ancora il mio mestiere, mentre prima quando si passava “dall’altra parte” era per sempre. Quando lavoravo a Repubblica, facevamo riunioni di redazione, guardavamo il mondo e sceglievamo cosa raccontare. Oggi nella mia azienda consideriamo i fatti e utilizziamo i nostri canali editoriali, ma ho un obiettivo diverso. Non giornalismo ma informazione.

In fondo, è scontato che Eni sostenga il festival, anche se molti invece si chiedono perché.

Essendo diventati protagonisti del nuovo modo di comunicare, più disintermediato, avendo avuto l’esperienza con Report, abbiamo capito che possiamo e vogliamo contribuire a strutturare il dibattito. E non c’è posto migliore di Perugia.

Avete aperto in queste ore un canale Telegram: per quale ragione?

Telegram assume due caratteristiche: profondità del one-to-one, inoltre è mezzo tecnico ricco di funzioni. Abbiamo il blog, eniday, dove raccontiamo dell’azienda e attraverso di questo attiviamo Telegram come un push per avvicinare le persone. Un passaggio in più.

Si dice che l’apertura di un canale di comunicazione che prevede un feedback cambi un’azienda. Quanto siete cambiati?

La cambia profondamente, perché impone di rivedere i processi, la comunicazione digitale ha una velocità e una interazione enormi, cambiano i ruoli. Ma non parlo solo di Eni, succede a tutte. Si cambia anche culturalmente, perché mettersi a disposizione, inserirsi nell’ecosistema, mettersi in ascolto, fa fare all’azienda un profondo bagno di umiltà.

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