Doina Matei: torna libera, ma senza Facebook

Per il caso della ragazza a cui hanno sospeso la semilibertà si è scomodato di tutto, dai sorrisi alla rieducazione, ma le regole sono chiare: ecco quali.
Per il caso della ragazza a cui hanno sospeso la semilibertà si è scomodato di tutto, dai sorrisi alla rieducazione, ma le regole sono chiare: ecco quali.

Doina Matei, la ragazza condannata a 16 anni per aver ucciso a Roma nel 2007 Vanessa Russo colpendola con la punta di un ombrello durante un litigio, può tornare in semilibertà – al lavoro di giorno e notte in carcere – regime che si è guadagnata l’anno scorso per buona condotta dopo aver scontato metà della pena. Lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Venezia, annullando la sospensione a seguito della pubblicazione di una foto su Facebook. In queste settimane molti si sono chiesti se davvero si può tornare in prigione per un post. La risposta è sì. Però dipende.

Da cosa dipende? Per quale ragione Doina Matei è tornata in prigione, senza poter più lavorare di giorno alla cooperativa dove ha iniziato il suo percorso di reinserimento sociale? I commenti dei giornali avevano un po’ frettolosamente giudicato la decisione del giudice di sorveglianza, Vincenzo Semeraro, come una specie di “censura del sorriso”, appoggiata peraltro da alcuni commentatori. Va detto che, per legge, un giudice ha poteri praticamente su ogni aspetto della vita del carcerato per stabilire se sta seguendo un percorso che contenga anche un sincero pentimento, ma il contenuto estetico della foto in bikini sugli scogli che tanto aveva disgustato l’opinione pubblica non c’entra un bel niente, né il sorriso, né altro: non si può certo pensare che una foto possa davvero cambiare l’opinione a proposito di una persona sulla quale carcere, avvocati e giudici sanno praticamente ogni cosa e che seguono da anni. Il motivo era un altro ed è stato spiegato in un question time dal Guardasigilli, il ministro Orlando, ai tempi della pubblicazione dell’articolo sul Messaggero.

Una foto è comunicazione oppure no?

Qui c’è il dilemma: quanto sia possibile considerare una foto su un social network una forma di comunicazione paragonabile a quella vocale, da persona a persona, che la ragazza doveva limitare al datore di lavoro, al proprio avvocato e a pochi altri. L’avvocato della giovane, Nino Marazzita, ha difeso a spada tratta questo concetto:

Senza una specificazione, le restrizioni non potevano riguardare Internet. Doina Matei ha navigato col suo cellulare, ma non ha parlato con nessuno. Era per far sapere a famigliari lontani che stava bene. S’intende: avesse comunicato con Riina, uso un paradosso, sarebbe stato molto diverso. Ma non è accaduto nulla di tutto questo. La ragazza ha ammesso di aver compiuto una leggerezza, peraltro neppure oggetto di alcuna indagine.

Leggendo bene le motivazioni però, si comprende che il collegio ha fatto sue, indirettamente, le precisazioni già arrivate a proposito degli arresti domiciliari con sentenza della Cassazione del 2012:

Il divieto di comunicare con terze persone, estranee ai familiari conviventi vale anche per le comunicazioni tramite internet sul sito Facebook, ma l’uso di Internet non è illecito quando assume una mera funzione conoscitiva.

In soldoni: il detenuto o arrestato può usare Internet per finalità conoscitive, ma non comunicative; si può leggere ciò che accade su Facebook, ma non interagire tramite Facebook. Sottile, ma importante, già visto in diversi casi. L’avvocato Francesco Paolo Micozzi, che di recente al Festival di Perugia è intervenuto sui captatori informatici ed è uno dei massimi esperti del rapporto tra privacy, reati e informatica, leggendo le motivazioni trova confermate le sue opinioni, cioè che il caso Doina Matei non è inedito:

Comunicare può voler dire anche solo mandare un messaggio, oppure c’è bisogno di un dialogo? Un argomento che giustamente è stato oppugnato, tuttavia la parte più importante del testo è quella in cui si parla della violazione da un punto di vista prognostico indicativo della inidoneità della misura alternativa alla risocializzazione. In altri termini, il Tribunale di sorveglianza, pur in presenza di una violazione delle prescrizioni, ha ritenuto di non dover compromettere l’intero percorso di risocializzazione, già proficuamente iniziato.

In carcere per una foto

Il caso Matei è insomma solo un caso particolare, perché riguarda la semilibertà, di quanto già adottato per gli arresti domiciliari. Se un tribunale di sorveglianza prescrive che si può utilizzare il cellulare solo per chiamare alcuni nomi prestabiliti non si può usare nelle sue applicazioni, nemmeno per collegarsi a Internet, perché le comunicazioni sono anche quelle a mezzo mail, a mezzo Messenger, con un tweet e qualunque altra cosa. Anche una semplice ricerca su Google può bastare. E, come in questo caso, solo il buon comportamento precedente e l’irrilevanza della foto hanno consentito di ripristinare la semilibertà. In casi differenti forse non sarebbe stato possibile. La vera novità è che un tribunale ha dovuto specificare che quelle app sul cellulare non sono escluse dalle prescrizioni. E anche questo è il segno dei tempi.

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