#Bastabufale: noi non firmiamo

Webnews non firmerà l'appello bastabufale: troppo generico e vittima della solita ideologia colpevolista nei confronti del web, cieca verso la società.
Webnews non firmerà l'appello bastabufale: troppo generico e vittima della solita ideologia colpevolista nei confronti del web, cieca verso la società.

Qualche giorno dopo un bellissimo articolo di Ethan Zuckerman del Center for Civic Media e del MIT Media Lab, complesso, raffinato, a tratti caustico, intitolato “basta parlare di fake news: non aiuta”, qui più mestamente ci dobbiamo accontentare di un appello di Laura Boldrini contro le bufale. Degna sintesi della visione ormai chiaramente colpevolista della presidente della Camera quando si tratta di parlare di problemi da additare genericamente ai processi informativi sul web e i social in particolare.

Di fronte all’iniziativa, per carità, innocua, dell’appello online, viene da chiedersi se usciremo mai da questo codice binario: retorica della carta contro retorica del web, retorica dell’offline contro retorica dell’online, e soprattutto la visione così tremendamente parziale per cui dall’osservazione naturale di un fenomeno sociale, uno qualunque, si passa ipso facto a dare la colpa al Web. Ovviamente le bufale e in particolare le false notizie, costruite in taluni casi – non tutti – da vere e proprie fabbriche online sono concrete: l’inchiesta di BuzzFeed sulle pagine fake anti-Clinton create in Macedonia è da incubo distopico: miriadi di click su contenuti farlocchi, propagati viralmente in Rete, guadagnati solo con falsità, meme, bufale evidenti, per un pubblico senza la minima consapevolezza del giro di denaro che vi sta dietro, attirati soltanto dal gusto di condividere un contenuto che conferma una convinzione mai sottoposta ad autocritica. Sono cose che si sanno. Tuttavia, perché questa facilità nel passare dall’osservazione superficiale di un fenomeno all’incolpare il canale?

La risposta di Zuckerman, dopo aver citato un altro studio che smonta ancora una volta la tesi per cui Trump sia stato votato grazie ai siti di bufale – ormai la bufala più resistente dei tempi recenti – è molto sincera: perché lava la coscienza e de-problematizza.

Molte più persone sono state più influenzate dal parlare delle notizie false che dalle notizie false in sé. Perché? Perché i progressisti amano l’idea delle “notizie false”. La maggior parte dei progressisti – me compreso – trovano difficile capire come gli americani possano vedere il mondo in modo diverso. Incolpando le bufale dei risultati delle elezioni, abbiamo una spiegazione semplice per una situazione incomprensibile. Se solo potessimo eliminare tutta la disinformazione, tutti sarebbero d’accordo con noi!

Un commento brillante sullo stesso tema è quello di Arianna Ciccone, organizzatrice del Festival del Giornalismo di Perugia, che dal blog Valigia Blu ha criticato fortemente la nuova retorica che vede opposti mass media tradizionali e social network:

Le fake news esistono da sempre e da sempre hanno accompagnato le real news. Con il web e con i social è sicuramente cambiata la portata e la capacità di diffusione. Ma va detto, al tempo stesso, che sono aumentate le fonti e gli strumenti capaci di smontare un’informazione falsa, anche in tempo reale. (…) A inquinare il discorso pubblico e a doverci preoccupare, dunque, non è solo il sistema delle fake news, ma tutto ciò che in buona o cattiva fede può ingannare i lettori, proprio perché ha un forte impatto su come si forma la nostra visione della realtà e del mondo. Penso, ad esempio, agli innumerevoli casi di disinformazione, propaganda e pubblicità occulta veicolati attraverso i media in tutti questi anni. Dunque, se ci mobilitiamo contro le fake news, sarà indispensabile – volendo essere credibili e onesti – andare fino in fondo e allargare la discussione pubblica a tutto ciò che in qualche modo ha come risultato quello di disinformare i cittadini. I media e la politica, pertanto, sono parte del problema e gli stessi giornalisti (e chi si occupa di informazione) dovrebbero farsene carico.

Ecco, uno dei limiti evidenti di questo appello è l’assenza di questo carico. Per quanto cerchi un equilibrio e di fatto non sollevi nessuna questione concreta su quali strumenti adottare per questo fact checking, che comunque serve a poco, sembra cambiare di tono in caso si sia giornalisti: i giornalisti devono impegnarsi a fare il loro lavoro di guardiani della verità e della qualità, mentre i social devono mettersi la cenere sul capo e le aziende rinunciare alla pubblicità sui siti contestati da questi stessi giornalisti. Ma come si può credere a un modello del genere? Fosse messo in pratica realmente, ci sarebbero quelle che il sociologo Boccia Artieri ha definito «nuove forme di radicalizzazione sul comune senso della verità».

Webnews ha dedicato alle proposte folli della politica italiana una timeline che è una galleria degli orrori ideologici a proposito della Rete. In questi anni abbiamo tenuto fede a un principio: ciò che irrompe in modelli consolidati non è male né bene, è nuovo e come tale va giudicato. Spogliata di tutti gli orpelli e gli abbellimenti, questa ideologia allarmistica è in sintesi una forma di vendetta: politica e media sono stati disintermediati? Allora si vendicano incolpando Internet di tutto quanto. Alla fine quello che sta accadendo è semplice. Per questo l’appello non è un testo che entusiasmi o faccia venire voglia di firmarlo. Parte da premesse condivisibili, ma scivola velocemente nella solita tiritera. E ci si chiede anche che senso abbia chiedere firme a un appello invece che sotto una proposta di legge che, a questo punto, affronti per davvero questo problema se lo ritengono tanto grave. A che servono queste firme?

Stiamo vivendo una specie di enorme e impotente frustrazione culturale che si dirama in milioni di rivoli diversi, di proposte di tutti i tipi. Per alcuni è un ottimo selfbranding, per altri occasione di qualche vendetta politica, o di ostruzionismo, altri sono convinti per davvero e lo si nota nei servizi di giornalisti preparati, ma vecchi: Presa Diretta, Report, i migliori, da anni fanno servizi su Internet che fanno cascare le braccia. L’equazione è sempre la stessa: i ragazzi depressi o dipendenti? Internet. Mancanza di lavoro? I colossi di internet. Populismi? Internet. Crisi dei giornali? Internet. Ignoranza? Internet, come disse Scalfari qualche anno fa. Violenza? Odio? Internet. Indicate un problema qualunque e poi date la colpa a Internet.

Visto che tu, cattivo Internet, mi hai disintermediato, mandato in soffitta decenni di modelli di business consolidati, vai all’Inferno: le cose vanno male ed è colpa tua. Cosa conforta di più dell’autoconsolazione e dell’autocommiserazione? Cosa pulisce di più la coscienza? Internet “lava più bianco” la coscienza di media e politici che scoprono la possibilità addirittura di far credere di averne una. No, Webnews non firmerà questo appello perché non supera in modo convincente questo difetto originario e alimenta una buzzword che anzi peggiora le cose: il debunking si rivolge a persone diverse da quelle che leggono le bufale, le notizie false convincono persone già convinte, e la società mostra una evidente crisi sistemica per la stagnazione economica pluridecennale, non certo per qualche sito dell’est europa con qualche migliaio di utenti.

Inutile sfuggire, alla complessità si dovrà reagire con complessità, ripartendo dalla faticosa analisi sociale, qualitativa, che sappia anche integrare degli elementi computazionali, ma che non dimentichi la concretezza dei bisogni umani, compreso quello di credere a ciò in cui è conveniente o comodo credere. Si risponde guardando il volto dei fallimenti del post-ideologico, dell’economia, della politica. Facendo ripartire l’ascensore sociale. Prendersela coi social è piuttosto vacuo.

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