Agcom vuole poteri su fake news e hate speech

Nella relazione annuale dell'Agcom si accenna quanto mai prima a fake, hate speech, cyberbullismo: terreni molto ambiti, anche troppo.
Nella relazione annuale dell'Agcom si accenna quanto mai prima a fake, hate speech, cyberbullismo: terreni molto ambiti, anche troppo.

Non vi piacciono le fake news, o almeno quelle che voi ritenete esserlo, e neppure tutta quella aggressività in Rete, sia tra gli adulti che tra i minori? Volete fare più in fretta nel cancellare bufale, notizie, comportamenti negativi, distruttivi, senza aspettare un giudice? Se siete della schiera, sempre più ampia, del “prima è meglio, subito è perfetto”, oggi potete contare su un altro grande sponsor: l’autorità garante delle comunicazioni  (AGCOM) e il suo presidente, Marcello Cardani.

Durante la presentazione della relazione annuale, l’authority ha presentato i risultati della sua attività, dove è stato dato particolare rilievo all’ancora persistente digital divide in questo paese e alle peculiarità italiche nel rapporto tra uso di Internet, operatori, programmi sulla banda larga in un mercato che deve cercare di essere concorrenziale ed efficiente. A colpire, però, della lunga relazione letta dal presidente sono stati brevi cenni su argomenti che mai erano stati affrontati da questa autorità garante, e che sono giustificati, prevedibilmente, dai cambiamenti della Rete.

In due punti vengono citate le fake news e l’hate speech, nuove buzzword utili a tutti gli scopi, migliori e peggiori, attorno alla Rete. All’inizio il presidente Cardani accenna a una non bene identificata invocazione dei consumatori “per un nuovo ruolo e nuove protezioni dentro l’economia e la società digitale”; nel finale dell’intervento invece c’è un chiaro invito al legislatore ad affidare queste problematiche nelle mani dell’Agcom, con nuovi “strumenti adatti ad affrontarle”. Il riferimento a quanto già fatto ad esempio con il regolamento sulla violazione del copyright è evidente: l’Agcom ha esperienza e personale per prendere in capo questi temi e decidere più velocemente.

Già, ma è davvero sensato e auspicabile che proprio l’Agcom metta mano su un tema così sofisticato e ancora in pieno dibattito come le fake news? E dopo l’approvazione della legge sul cyberbullismo, che con tanta fatica ha disposto un preciso percorso, perché mai l’Agcom dovrebbe avere un potere? E ancora: nel caso dell’hate speech, come pensa di portar via questo argomento ai tavoli della Boldrini? Certo, Cardani qua e là aggiunge qualche parola sull’investimento nella ricerca della verità, della competenza digitale, rassicura sul fatto che «nessuna regola può sostituire l’attivismo intellettuale e l’ascolto dell’altro nella ricerca della verità», ma a dirla tutta è fin troppo chiaro che l’Agcom sta avocando a sé nuovi temi, che significa nuovo lavoro e possibilità di mantenere un peso istituzionale dopo che la lotta alla pirateria ha fatto la fine che ha fatto.

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Il senso di questi movimenti di pensiero da Rumore dei nemici, è purtroppo sempre lo stesso: la separazione artificiale dei media tradizionali da Internet, la colpevolizzazione esclusiva della Rete (nonostante esistano prove inconfutabili sulla trasversalità di questi problemi), lo sfruttamento di timori banali a proposito della Rete per alimentare pulsioni potenzialmente liberticide. D’altronde, se il legislatore immagina che una trasmissione televisiva o un titolo di giornale siano meno fascisti a causa di una supposta minore capacità di propaganda, perché non proseguire sull’onda dell’ossessione per la comunicazione “errata”, per la disinformazione, nella convinzione che la cura non sia una opinione pubblica adulta informata, bensì vada protetta dalle cose brutte. E che per questo obiettivo valga la pena inventare sempre più nuovi poliziotti della Rete che non vadano tanto per il sottile: un bel procedimento automatico di inibizione all’hosting, inversione dell’onere della prova, sulla base della denuncia di qualcuno che alzi la mano e dica “mi sento offeso”.

L’avvocato Fulvio Sarzana, che negli anni scorsi ha fortemente combattuto questo modello nel caso del regolamento sul copyright (argomento quasi sparito dalla relazione quest’anno), non può che riconoscere lo stesso vizio e fa un confronto:

Negli Stati Uniti nessuno si sognerebbe mai di intervenire in questo modo davanti al Primo Emendamento. Purtroppo in Italia discutiamo con sorprendente superficialità di questi problemi considerando la libertà di espressione come un elemento secondario, funzionale a qualcosa d’altro.

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