Su Webtax Europa in alto mare. Speriamo per sempre

Prima l'Ecofin, oggi la Commissione Europea: di colpo torna di moda la Webtax, nonostante sia quasi impossibile applicarla senza fare danni al sistema.
Prima l'Ecofin, oggi la Commissione Europea: di colpo torna di moda la Webtax, nonostante sia quasi impossibile applicarla senza fare danni al sistema.

L’ultimo Ecofin, il vertice dei ministri economici dei paesi membri dell’Unione Europea, ha prodotto un documento condiviso da Italia, Germania, Francia e Spagna dove si torna a parlare di Webtax. I conti però sono presto fatti: l’Unione è composta di 27 paesi e questo tema ha nuovamente fatto emergere gli interessi contrastanti tra i paesi campioni della lotta contro l’elusione fiscale delle multinazionali e quelli bandiera dell’attrattività d’impresa tramite leva fiscale. Così la tassa più chiacchierata del nuovo millennio è rimasta nel guado, che è una buona notizia. Ma a Bruxelles contano di presentare un piano per il 2018.

Questa non è una Webtax. Iniziamo da questo concetto. E come tutte le cose che Webtax non sono, ma definite così dai proponenti politici, è un mezzo disastro. Si torna indietro di qualche anno e si parla nuovamente di tassazione dei ricavi e non dei profitti come soluzione estrema al problema dei vantaggi fiscali che le multinazionali del web riescono ad ottenere, in modo spesso lecito (e qualche volta no). La dichiarazione politica sulla tassazione dell’economia digitale (PDF) resta dunque la traccia di alcuni sforzi che non hanno presa sulla realtà, soprattutto se letta in filigrana alle pratiche di ruling internazionale che sembrano il vero scopo di questa pressione di alto livello, inedita nella lunga e avventurosa trama di questa idea.

I quattro ministri delle finanze dei paesi più grandi dell’Eurozona non intendono arretrare sul tema e hanno ottenuto un sì di massima dai colleghi di Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania; tuttavia i progetti di imposta speciale su aziende come Google o Facebook sono estremamente discutibili. La ragione è già stata spiegata molte volte – anche su Webnews – però evidentemente non si vuole capire, nonostante i report chiari dell’Ocse: tassare i fatturati va contro un secolo di convenzioni economiche e finanziarie e andrebbe incontro a violazioni di principi di equità stabiliti in Costituzione. L’Estonia, governo a cui è stato indirizzato il documento, ha invece preso l’impegno politico di stendere una proposta che convinca l’unanimità dei paesi membri. Al momento però non si vede come possa riuscirci.

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Le quattro firme dei quattro ministri di Italia, Francia, Germania e Spagna al documento preparatorio che poi all’Ecofin ha visto l’appoggio di altri sei stati dell’Unione. Un risultato scarso, al di là delle parole ottimistiche di prammatica dopo la conferenza, che dimostra l’enpasse politica sul tema dell’elusione fiscale.

La Commissione Europea

Intanto anche la Commissione Europea, tramite il suo vice presidente Valdis Dombrovskis, affronta la questione del fisco equo per le aziende digitali, annunciando una serie di proposte che arriveranno l’anno prossimo. I dati sono noti: le grandi multinazionali del web pagano mediamente meno della metà delle tasse delle imprese tradizionali, e per il vecchio continente questo non è più accettabile. Scottato dalla vicenda Irlanda-Apple, il governo europeo a Bruxelles prova una fuga in avanti, sperando di trascinare con sé l’Ocse.

Le proposte legislative ancora non esistono, ma non è difficile immaginarle: tutto ciò che può portare alla “virtualizzazione” della stabile organizzazione tramite qualche complicato calcolo che consideri presenza tangibile, intangibile, asset, fatturato, attribuendo profitti ai quali si possa imporre una tassa di equità basata quindi su un reddito piuttosto simile per aziende simili.

Carnevale Maffè: una tassa per loser

Non ci sono molte vie salubri per correggere il vantaggio fiscale delle multinazionali – calcolato in cinque miliardi di euro l’anno, mezzo miliardo per l’Italia: con il concetto di stabile organizzazione, usato come leva dalla legge sulla concorrenza secondo l’emendamento Boccia, si chiede una certa cifra superato un certo livello di fatturato e corrispondenti ricavi sul suolo nazionale, ma si tratta comunque di briciole, già pagate da Amazon, Google, Facebook che hanno sedi in Italia e profitti collegati alle loro attività (molto diverse fra loro). Com’è noto, gli accordi di ruling internazionale hanno consentito fin qui all’Erario di ottenere cifre importanti. In India invece hanno pensato a una tassa compensativa sui ricavi che colpisce in pratica qualunque azienda che fa eCommerce. Insomma, tutti cercano di delimitare fiscalmente un’attività che dal punto di vista commerciale non ha limiti fisici. Bel guaio.

Il professor Carlo Alberto Carnevale-Maffè non è mai stato tenero verso l’idea della Webtax, e nel caso di queste intenzioni espresse dai politici europei è anche più duro.

Lei ha detto che in fondo questi ministri non parlano seriamente di Webtax, che lo scopo è un altro: quale?

Lo spauracchio della Webtax serve al mercato aperto con le grandi organizzazioni che hanno fatto ottimizzazione fiscale. Tassare i ricavi è un’arma ricattatoria, per costringerli a stabilirsi organizzativamente nei vari paesi.

Alcuni osservatori vedono la Webtax dentro la guerra commerciale neo-protezionistica fra Europa e Stati Uniti…

Diciamola tutta: è l’ammissione che l’Europa ragiona da perdente, perché tassare le importazioni di servizi, quando il valore aggiunto avviene altrove, dove si sviluppa la proprietà intellettuale, oltre ad essere contrario a 150 anni di principi di trading è anche un’assurda pretesa di vedere concorrenza dove non c’è: non esiste il Facebook o il Google europeo. Non facciamo la stessa cosa, non siamo capaci di farlo. Quindi è sostanzialmente protezionismo di reazione: gli Usa hanno le società innovative che non abbiamo e che hanno sfruttato le nostre leggi per pagare poche tasse, noi rispondiamo con tasse inventate, assurde, peggiorando la reazione possibile degli Usa verso le nostre esportazioni, di cibo, moda e altro, che invece hanno concorrenza. Complimenti.

Gli stati europei hanno bisogno di 5,4 miliardi di euro? Il principio è comprensibile, ma che differenza può fare rispetto all’indotto di queste aziende?

È quello che dico: ci fosse almeno una logica di protezione di un’industria nazionale, ma questo è solo il brutto spettacolo di stati affamati di fiscalità che hanno distrutto, frammentandole, le aziende che avrebbero potuto concorrere, e cercano di accaparrarsi un piatto di lenticchie.

Tuttavia, che le multinazionali riescano a eludere il fisco è un fatto comprovato: come si fa a pensare di arrivare a queste società?

Bisogna creare le condizioni di investimento, condizioni di lavoro, ambientali, per allocare centri di ricerca, centri di sviluppo che creino valore aggiunto.

E tassare zero le aziende che lo fanno? Perché essere competitivi col pacchetto irlandese – lussemburghese vuol dire scendere a zero, a questo punto…

Nel lungo periodo, la tassazione zero sarà parte di pacchetti fiscali coerenti col mondo Internet, dove si tassano i consumi, cioè i benefici di quel reddito, invece degli utili. È una visione difficile al momento, può sembrare rivoluzionaria, ma pensiamo a cosa sta succedendo: chiediamo un contributo per pagarci le spese in un contesto globale di fiscalità nel quale ci stiamo impicciando degli affari altrui. Semmai sono gli americani che lasciano che queste aziende portino i soldi alle Cayman. Lo risolvano. Noi possiamo al massimo puntare ad attrarle, di modo che si stabiliscano qua, con le loro attività commerciali, che rappresentano forse il 5% del fatturato. Qualche miliardo di reddito imponibile in Europa tassati circa al 25%. Sono veramente pochissimi soldi, ed è tutto da stabilire se siano davvero cinque miliardi. Inventarsi la Webtax per cifre del genere, per un continente, è perdere la credibilità. È la tassa dei perdenti. La loser-tax.

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