Bloomberg sbotta contro i social network

Secondo il sindaco di New York i social network ricattano la politica e la sottopongono a referendum continui con giudizi istantanei.
Secondo il sindaco di New York i social network ricattano la politica e la sottopongono a referendum continui con giudizi istantanei.

Non ce la fa più. Uno dei sindaci più influenti e apprezzati d’America, Michael Bloomberg, getta la spugna e in uno sfogo coi giornalisti a Singapore – lontano dalla sua New York – ha sbottato contro i social network: «Sono soffocato dai social network, non mi lasciano lavorare». Proprio lui, uno dei politici con più followers: che ci sia una proporzione diretta tra la popolarità ed il coinvolgimento?

Coi suoi 230 mila seguaci su Twitter e una pagina Facebook dove promuove le sue iniziative per la città, Bloomberg non può certo definirsi un politico disinteressato alle potenzialità delle reti sociali, tuttavia il New York Times ha riportato alcune sue dichiarazioni che stanno sollevando un grande dibattito:

I social network sono creature dell’istante, ma governare una città come New York richiede programmazione a lungo termine, progetti decennali o ventennali, che vengono bocciati istantaneamente dalla marea di “no” prodotta in Rete. Non è possibile progettare nulla se ogni progetto viene sottoposto a referendum istantanei.

Neanche il tempo di finire il discorso che il suo collega Kishore Mahbubani, primo cittadino di Singapore, ha preso il microfono confermando di vivere la stessa condizione, gli stessi «referendum quotidiani». Coda di paglia? I politici sono vittime delle tribù Internet? Certamente la polarizzazione è un effetto tipico del web 2.0 e già un guru della Rete come Jason Lanier, nel suo libro “You’re not a gadget” fece molto rumore quando puntò l’indice contro il bullismo dei netizen affermando che «un coro collettivo non può servire a scrivere la storia, né possiamo affidare l’opinione pubblica a capannelli di assatanati sui blog. La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione».

Il giornalista di Repubblica Vittorio Zucconi, inviato dagli states ed esperto di politica americana, ha però sottolineato come Bloomberg – che ora fa la vittima – deve all’elettronica la sua fortuna (fu lui a creare i listini di Borsa) e non ha mai disdegnato il Web come luogo di creazione del consenso, nella nuova era obamiana. Per non parlare del fatto che nessun politico realmente democratico ha certo intenzione di comparire in classifiche imbarazzanti come quelle di Reporter senza frontiere, oppure finire nel cul de sac di una presa di posizione anti-Internet come quella di Sarkozy, sterile quanto lo stesso sfogatoio dei social network.

La soluzione? Si racconta che Margaret Thatcher non leggesse mai i giornali e suggeriva di fare altrettanto ai colleghi che lamentavano il maltrattamento da parte dei media, ma in quel caso la distanza tra paese e politica sortì effetti negativi e l’Inghilterra visse la più forte tensione sociale della sua storia. Meglio Alcide De Gasperi, che scrisse che «un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alla prossima generazione». Forse quell’uomo, che non poteva neppure immaginare il mondo globalizzato dei nostri tempi, ha indicato la cosa giusta da fare.

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