I diritti violati di chi produce i device Apple

Un osservatorio americano denuncia le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi della Apple. Un dossier frutto di quattro mesi di indagini.
Un osservatorio americano denuncia le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi della Apple. Un dossier frutto di quattro mesi di indagini.

Straordinari al mese superiori di quattro volte il consentito, salari bassi, incidenti, proteste ai limiti della sollevazione, suicidi. Il dossier preparato da China Labor Watch, un osservatorio indipendente sulle condizioni dei lavoratori in Cina per le aziende statunitensi, mette i brividi. Dopo quattro mesi di indagini, anche sul campo, ora il rapporto è stato pubblicato, rinfocolando le polemiche sulla Foxconn e le altre nove fabbriche che in diverse province lavorano per la Apple.

Condizioni di lavoro definite «deplorevoli», raccontate per filo e per segno, fabbrica dopo fabbrica, nelle 132 pagine del dossier frutto delle indagini promosse da questo osservatorio, che ha goduto dell’appoggio della stessa azienda californiana dopo le reazioni vibranti dell’opinione pubblica sul caso Foxconn nel 2010. La notizia è che nelle altre fabbriche del sud della Cina orientale, finora rimaste nel cono d’ombra, le condizioni sono spesso peggiori.

I lavoratori sono spesso esposti a rumori forti, a particelle sospese di materiali tossici, sostanze chimiche pericolose, e le lesioni da macchine operatrici non sono rare. […] Gli operai sono trattati come lavoratori di seconda classe e i loro diritti vengono regolarmente calpestati.

La relazione si basa su sondaggi e interviste a 620 operai, nonché sulle osservazioni di prima mano da parte di un team di sei persone, alcune delle quali entrate nelle fabbriche sotto copertura. Insomma, una vera inchiesta sia quantitativa che qualitativa, della quale ora Tim Cook dovrà tener conto, come ha garantito la società della mela morsicata quando ha aperto la pagina sulla Responsabilità verso le aziende fornitrici, la Apple Supplier Responsibility.

Molto interessante, nel rapporto, anche scoprire finalmente nome, collocazione e caratteristiche di tutte le fabbriche fornitrici di componenti per la Apple: oltre alla Foxconn, ci sono anche Jabil Circuit e BYD nella città meridionale di Shenzhen, che confina con Hong Kong, così come la Riteng accessori Computer (dove gli operai tagliano il traguardo record di 12 ore di lavoro al giorno) e la Kenseisha a Shangai. Nella provincia di Jiangsu, sempre vicino a Shanghai, sono state esaminate le fabbriche e intervistati gli operai della Surface AVY Precision, Toyo Appliance Precision, Catcher Technology, United Technology Win e Hardware Tenglong. Dieci in tutto. In nessuna di queste, stando al dossier, i diritti su salari, orari e condizioni di sicurezza sembrano essere rispettati e non certo per gli standard americani, bensì per quelli cinesi.

Questo elemento ha sempre fornito alla Apple l’argomento principale di difesa: in Cina è quasi impossibile avere il permesso di insediarsi senza garantire che non si interferirà sul rapporto sindacale, nazionalizzato dal governo centrale. Quindi, se anche solo si provasse a promuovere un rapporto contrattuale più libero tra operaio e azienda fornitrice per l’estero, si rischierebbe il sequestro della fabbrica.

Da qui le parole sia delle fabbriche che dei funzionari cinesi che – in una logica simile a quella dei cubani delle due sponde, Cuba e Miami – accusano la China Labor Watch, con sede a New York e presieduta da un cinese, di disfattismo, sottolineando i lenti ma graduali processi di miglioramento delle condizioni di vita degli operai in questi anni. Un operaio su tre, infatti, può permettersi di acquistare un device Apple che contribuisce a costruire. Il salario medio di questi operai oscilla tra 8,2 e 10,2 yuan, più o meno un dollaro e mezzo l’ora.

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