Huffington Post: ora il giornalismo è nudo

L'Huffington Post rappresenta una sfida importante nel mondo dell'informazione, di fronte alla quale il giornalismo tradizionale si scopre nudo.
L'Huffington Post rappresenta una sfida importante nel mondo dell'informazione, di fronte alla quale il giornalismo tradizionale si scopre nudo.

L’arrivo dell’Huffington Post in Italia ha immediatamente scatenato una ridda di commenti, giudizi e polemiche. Non poteva essere altrimenti: chi lo vive come una “invasione” per un certo orgoglio giornalistico italiano, chi non accetta la direzione della Annunziata per una nuova testata online, chi teme una contaminazione culturale firmata Arianna Huffington. Ma tra le polemiche si annida anche una questione più profonda e strutturale: il ruolo dei giornalisti nel giornalismo dell’Huffington Post. La loro definizione. E la loro compresenza con i blogger.

Da più parti il problema maggiormente evidenziato è nella scelta dell’Huffington Post di assoldare una vasta schiera di “blogger” a cui dare uno spazio ambito, una opinabile notorietà ed una retribuzione pari a zero. Esatto, pari a zero: Lucia Annunziata in tal senso sarebbe stata estremamente chiara:

I blog non sono un prodotto giornalistico, sono commenti, opinioni su fatti in genere noti; ed è uno dei motivi per cui i blogger non vengono pagati.

La categoria degli “opinionisti” sfuma così nella terra di nessuno a metà tra il giornalista retribuito ed il blogger non retribuito, sublimando in una casta profumatamente pagata che riesce a stare al di sopra delle due categorie. Ma la frizione di questa catalogazione genera immediatamente attriti non sopportabili.

Giornalisti vs Blogger

Da una parte ci sono infatti i giornalisti, coloro i quali vedono il proprio lavoro sempre più intaccato da un mercato che nella quantità ha perso ogni apprezzamento per la qualità. In un mercato con poca domanda e molta offerta, il prodotto giornalistico ed il suo autore diventano merce scarsamente appetibile, distrutta da una concorrenza  impossibile nella quale il prezzo crolla e la dignità della professione affonda.

Dall’altra ci sono i cosiddetti “blogger”, coloro i quali sull’Huffington Post vanno a cercare una malcelata ambizione di apparire nei posti che contano. C’è il politico prezzolato che cerca visibilità, c’è il personaggio in ombra che cerca un posto al sole, c’è la persona comune che cerca una elevazione personale o professionale. Tutti pronti a lavorare gratis pur di avere uno spazio su cui mettersi in vetrina (prima ancora di mettere in vetrina informazioni o idee). Del resto tutti pubblicano ogni giorno opinioni libere sui social network, perché non cercare una vetrina nuova per dar ossigeno alle proprie idee?

Ancora una volta, come già spesso su Webnews si è sottolineato, è l’ambiguità dei termini a creare la maggior parte della confusione: chi è il “giornalista” e chi è il “blogger”? Ogni differenziazione sembra essere vuota e poco significativa: non è lo strumento, non è la piattaforma e non è il tono a poter definire l’uno e l’altro. Non più. Potrebbe potenzialmente esserlo un albo, la cui funzione di eredità fascista è però del tutto vetusta e di per sé ambigua ed instabile. Non può esserlo pertanto nemmeno un parametro che si fa discriminante economica. Cosa sia il giornalista e cosa il blogger, e cosa li identifichi e distingua, è forse il primo problema da affrontare, quello alla base di tutto: un problema di identità che si fa sistemico, che mina ogni ragionamento successivo.

Ma se ogni ragionamento è a modo suo valido, ciò non è un concetto sostenibile se ci si rivolge al lato economico della questione. Chi apre una nuova iniziativa imprenditoriale, infatti, non fa altro che cercare lucro ove ritenga vi siano opportunità; chi presta il proprio lavoro lo fa dove ritiene vi siano opportunità; in tutto ciò quello che conta è il commercio di opportunità su un mercato che di denaro ne vede sempre di meno. Come contestare dunque ad uno scrittore di aver lavorato gratis in cerca di visibilità? Lo si può e lo si deve persuadere, semmai, del fatto che il gratis è una forma di disprezzo, è un metodo parassita che non porta meritocrazia e che non regala opportunità vere se non nella dimensione dell’immediato e del non durevole. Ma non si può contestare il modello su di una base economica. Soprattutto se è di dignità di una professione che si va disquisendo.

Il giornalismo è nudo

Impossibile non allinearsi pertanto all’appello di Davide “Tagliaerbe” Pozzi, il quale manda ai sedicenti “blogger” l’invito alla meditazione:

Mi chiedo fino a quando ci sarà gente disposta a barattare presunta visibilità con lavoro gratuito, fino a quando ci saranno persone che produrranno contenuti per colossi che macinano milioni di fatturato in cambio di pacche sulle spalle.

“Iniziamo con circa 200 blogger, ma finché non arriviamo a 600 non mi sento tranquilla” ha affermato l’Annunziata.

Forza dunque, sgomita anche tu per uno dei 400 posti di lavoro non retribuito: non vedrai il becco di un quattrino, ma potrai vantarti di aver contribuito a tranquillizzare la povera Lucia.

Meno condivisibile, invece, un attacco come quello firmato da Carlo Gubitosa sul sito LSDI (Libertà di Stampa Diritto all’Informazione):

Persone che amano considerarsi “scrittori puri” amanti dell’arte per l’arte e lontani dalla preoccupazione della vil pecunia, mentre in realtà sono solo pedine di un nuovo tecnocapitalismo che monetizza sugli aggregatori la tua voglia di farti leggere, monetizza su facebook la nostra voglia di farci i fatti degli altri e i nostri dati personali, monetizza la voglia dei lettori di sentirsi alla moda cliccando sul portale più in voga del momento per sapere di cosa discutere poi al bar o su twitter.

Se ti senti una ostetrica che partorisce un nuovo giornalismo, sappi che sei solo il becchino che sta scavando la fossa a quello vecchio.

Facebook, Twitter ed il “sito più in voga del momento” sono messi dalla parte dei cattivi, mentre un fantomatico “giornalismo” idealista viene seduto dalla parte dei buoni (il che, nel giorno di Sallusti e Farina, diventa quanto meno difficile da sostenere). Ma, soprattutto, si rivendica la necessità di procedere per la tutela del giornalismo dai “blogger” come elementi che inquinano ed imbastardiscono una professione.

Il giornalismo è un architrave della democrazia, ma quando crolla le cause possibili sono due: o si sta tagliando la trave dall’esterno, o la trave è già marcia di suo dall’interno. In questo caso i “blogger” sembrano essere soltanto il piccolo colpo di grazia ad una categoria che ha perso di dignità nel momento stesso in cui ha rinunciato alla qualità, ha dimenticato le basi e si è abbandonata a partigianerie, improbabili opinionisti e colonne soft-porno.

Gubitosa porta avanti un appello disperato che merita di essere ascoltato e meditato, valido nella sostanza pur inciampando nelle argomentazioni:

Voglio dirti una cosa col cuore in mano: anche a me è capitato di scrivere gratis per questo maledetto prurito alle mani che mi perseguita da una ventina d’anni, e perché il piacere di pubblicare un editoriale su un quotidiano nazionale può mettere in ombra il compenso che ne corrisponde. Ma poi ho cominciato a interrogarmi sulla responsabilità sociale delle mie azioni.

La responsabilità sociale è un aspetto fondamentale, infatti, ma non incisivo. Non persuasivo. Non si può infatti difendere una categoria sul semplice presupposto per cui c’è sempre stata e sempre dovrà esserci:

Vorrei poi capire perché non ti interessa la paga per  ciò che scrivi su un portale dove poi faranno centinaia di migliaia di euro di profitti con i contatti che gli porterai anche tu. Sei di nobili discendenze? Sei ricco di famiglia? Vivi ancora con mamma e papà? In ogni caso il tuo hobbismo che se ne frega del salario per le ragioni più varie è una seria minaccia alla sopravvivenza di gente che fino a ieri viveva col valore dei propri scritti e oggi stenta a mettere insieme una paga decente perché sono arrivati in massa sulla rete persone come te che lavorano gratis pur di mettersi in vetrina.

La verità è che il mercato ed il lettore non sanno più distinguere il giornalista da chi non lo è, e se ciò succede è perché l’albo non sa più certificare nulla, perché la qualità non è appannaggio di una o dell’altra parte, perché i giornali non si sono coltivati una community consapevole ed attenta, perché nella quantità delle informazioni si perde spesso l’essenza della notizia e perché il mercato è poco meritocratico di sua natura (ma in tal senso il giornalismo tradizionale ha grosse responsabilità di cui fare ammenda).

Di fronte a tutto ciò vien fuori l’Huffington Post, un piccolo crogiuolo di giornalisti guidato dal nome che conta e  circondato da un esercito di blogger volontari che nutrono con il gratis la fama dell’editore. Arianna Huffington culla il desiderio di notorietà grazie a schiere di SEO, dimostrando di conoscere al meglio tanto il mercato, quanto lo strumento. E di fronte a tutto ciò il giornalismo tradizionale è nudo, impotente, rivendica dignità pur nascondendo le proprie vergogne dietro ad una foglia di fico. La salvezza, però, non arriverà: l’Huffington Post è un male necessario, forse una tappa obbligata verso la maturazione di una nuova era del giornalismo. Perché tanto l’ostetrica quanto il becchino, da che mondo è mondo, hanno sempre avuto lavoro.

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