Sulla Rai il talent delle startup

La Rai vuole fare un X-Factor delle idee, con lo stesso conduttore, Cattelan. Le startup sono sulla bocca di tutti: non è una buona notizia.
La Rai vuole fare un X-Factor delle idee, con lo stesso conduttore, Cattelan. Le startup sono sulla bocca di tutti: non è una buona notizia.

Un talent sulle startup. Detta così, vien voglia di sperare nella profezia Maya, ma nel caso la fine del mondo si riveli – come è altamente probabile – un equivoco, dovremo purtroppo vedere anche questo, l’abbinamento di due fra i termini più in voga nelle nuove generazioni in un format televisivo. La mise en abîme è venuta ai dirigenti di viale Mazzini, sarà perciò la Rai, il servizio pubblico, a produrre un “X-Factor” delle nuove imprese tecnologiche e, tanto per non farsi accusare di avere idee troppo originali, hanno pensato di farlo condurre alla medesima persona, Alessandro Cattelan. Non si trattiene la domanda retorica: ma non se ne poteva proprio fare a meno?

Pare di no, almeno stando alle indiscrezioni pubblicate in questi giorni da alcuni blog che si occupano di televisione. Del nuovo programma si conosce già tutto: il nome provvisorio, Startup (è anche una rubrica di Rai5, ma questo sarebbe il meno), il conduttore, il format (un talent in cui viene messa in palio una cifra importante), il palinsesto (Rai 1) e la programmazione: la prossima primavera, in quattro puntate come minimo, in diretta.

La logica dei dirigenti televisivi è la seguente: la Rai è una grande azienda che già produce cinema, sostiene progetti, ha un contratto di servizio che – pure decurtato dagli aspetti previsti dal testo unificato Gentiloni-Palmieri escluso dall’Agenda Digitale – punta all’investimento sulla creatività giovanile. Un esempio, molto serio e ben fatto, è EtaBeta, il programma di Radio1 condotto da Massimo Cerofolini.

Ma la televisione, e il talent in particolare, sono la risposta giusta? Probabilmente no. Anzi, quasi certamente. L’Italia è un paese strano, dove per due decenni si sono distrutti i sogni di una generazione, calpestata da precariato, vuoti legislativi, perdita di quote di mercato, debito pubblico, corruzione politica, crisi economica. Ora, sull’orlo del baratro, con poche modifiche legislative – i criteri sulle startup, qualche credito d’imposta – e tantissimo lavoro silenzioso da fare, non c’è angolo del paese dove non si trovino incubatori, talent garden, premi, eventi, manifestazioni, pitch. È un fatto positivo, ma tutto è improvvisamente startup, una qualunque idea è una startup. Non abbiate paura: una startup ci salverà.

In questo orizzonte un po’ soffocante degli infiniti eventi, dei grandi giornali che fanno a gara a colpi di blog e rubriche, tutta questa ansia di dire tutto, di far vedere tutto, sarebbe degno della intelligenza che riconosciamo agli startupper italiani se decidessero di chiamarsi fuori dallo sfruttamento della tivù generalista, lasciando in un rispettoso cono d’ombra il cuore di questo mondo fatto di rischio, di idee, di lavoro, di pensiero, di viaggio, di passione. Destino più desiderabile, almeno secondo gli stessi fautori di tutto ciò che è sempre stato avanguardia nella storia dell’arte e della tecnologia, del rischio che stiamo correndo: la banalizzazione.

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