#IF2013: ieri, Olivetti e domani

L'Internet Festival 2013 si è interrogato sul significato della parabola di Adriano Olivetti e di quanto questa storia possa servire all'Italia di oggi.
L'Internet Festival 2013 si è interrogato sul significato della parabola di Adriano Olivetti e di quanto questa storia possa servire all'Italia di oggi.

La prima giornata dell’Internet Festival 2013 ha visto tra gli appuntamenti di punta un incontro che, pur nascendo su importanti premesse, ha probabilmente saputo offrire più di quanto il tema non promettesse. L’idea di partenza era infatti quella di leggere l’oggi alla luce del ieri, filtrando il tutto attraverso la chiave di lettura rappresentata dalla vita di Adriano Olivetti. Se si è andati oltre è per quanto messo in campo dagli ospiti presenti all’incontro, i quali hanno presto spostato sul domani la proiezione delle idee con cui Olivetti creò, alcuni decenni fa, la più grande chimera innovativa del nostro paese.

Cosa sia stata la Olivetti per la storia del computing è cosa nota più o meno a tutti coloro i quali conoscano la storia dell’informatica o del nostro paese. Meno chiare sono le dinamiche della parabola discendente ed i motivi che hanno portato la grande Olivetti a trasformarsi da grande sogno a grande incompiuta: una spinta venuta a mancare nel momento più importante e, più in generale, una reale consapevolezza in grado di farsi sistematica ed endemica. La mano abile nello stimolare il dibattito è quella di Michele Mezza, giornalista e autore del libro “Avevamo la Luna“, il quale esordisce con una provocazione: il martello che lanciò la Apple con il noto spot del 1984, simbolo della rottura del grande monopolio contro cui Cupertino si scagliava, sarebbe dovuto essere impugnato da mani italiane. Così non fu: non fu la Olivetti a cavalcare la rivoluzione, ma fu piuttosto un attore statunitense. Ed in quel momento la storia cambiò.

Elserino Piol e Giuseppe Cecchini, testimoni diretti degli anni della grande Olivetti, hanno ricordato come quelli fossero anni di grande entusiasmo: l’Italia da ricostruire era anche un’Italia piena di idee e capace di tuffarsi nell’innovazione con risorse umane senza pari. La parabola cambiò però direzione nel momento in cui, alle energie dei privati ed agli sforzi imprenditoriali, non si trovò adeguata risposta tanto dalle istituzioni, quanto dal contesto socio-culturale. Il substrato su cui si era innestata l’Olivetti, insomma, si dimostrò arido proprio nel momento decisivo.

Renato Soru, la cui storia si è divisa tra l’imprenditoria e la carriera politica, ha spiegato come il successo di una azienda non possa prescindere dal contesto in cui cresce. Opinione condivisa dei partecipanti all’evento è quindi nel fatto che manchino oggi all’Italia almeno due componenti per poter rilanciare la pulsione innovativa: primo, una regia nazionale che sappia coordinare gli sforzi, pur presenti e meritevoli, delle realtà territoriali; secondo, una adeguata cultura tra la popolazione, linfa vitale su cui costruire una società, una classe imprenditoriale ed una nuova generazione in grado di sviluppare qualcosa di valido.

Chi controlla i big data?

Se si vuol proiettare sull’oggi le pulsioni che portarono Olivetti a sviluppare quel che l’azienda creò negli anni del suo massimo splendore, occorre partire dalla gallina dalle uova d’oro dei giorni nostri: i “big data“. Renato Soru, il cui ritorno in Tiscali sta coincidendo con una reinvenzione radicale del gruppo e dei suoi servizi, insiste molto su questo punto: chi controlla i nostri dati? Perché consentiamo ai big player statunitensi di controllare i nostri dati senza pretenderne il controllo? Il controllo, infatti, è tutto: è alla base della privacy, è potere, di fatto è sovranità. Perché cedere tutto ciò a basso costo senza tentare di lanciare un nuovo martello contro l’oligopolio dei big data?

L’Europa ha oggi poche risorse e l’Italia è in questo contesto ancor più debole. Presto o tardi la situazione dovrò cambiare, ma ad oggi le prospettive sono oltremodo scarse: non ci sono i presupposti affinché si impari presto a fare impresa ed a trovare la chiave di volta per ribaltare il tavolo in favore degli attori nostrani del mercato. Elserino Piol sottolinea come in primis manchi l’anello di congiunzione tra istituti di formazione ed aziende: queste entità erano un tempo il ponte fondamentale tra la scuola e l’impresa, consentendo ai talenti migliori di evolvere direttamente verso le posizioni migliori in cui esprimere le proprie capacità. Oggi non è più così.

Il partito digitale è orizzontale

Michele Mezza ha lanciato nel dibattito uno spunto ulteriore: perché l’informatica ha da sempre indotto ragionamenti di tipo orizzontale tali per cui la verticalità di una organizzazione partitica non possa essere tollerata? Perché dal mondo del digitale giungono da sempre spunti di attrito nei confronti della politica tradizionale?

Anche in questo caso la risposta sembra essere di tipo contestuale, con due mondi opposti che entrano in collisione e che presto o tardi dovranno affrontare una resa dei conti. Renato Soru ne è convinto: la risposta è nel “digital first“. Soltanto nel momento in cui la politica e l’imprenditoria inizieranno a ragionare formattando le proprie idee sul digitale, allora ci potrà essere un reale balzo in avanti sotto ogni punto di vista. Oggigiorno invece l’attrito tra passato e futuro esprime ancora gravi tensioni che lasciano sul terreno vittime e danni. Non si possono ignorare i giovani disoccupati, ad esempio: se una risposta può esserci, questa va cercata nel digitale e nell’innovazione, poiché è nel futuro che va individuata una risposta ai problemi di oggi.

Olivetti, una storia di domani

Rileggere la storia dell’Olivetti, nonché quella personale di Adriano Olivetti, non è soltanto un esercizio di stile: è una chiave importante, oggi, per comprendere il domani. Se l’Olivetti non è la Apple è perché l’Italia di allora non ci credette e sconsigliò più volte di investire nell’elettronica poiché non sarebbe stato un ramo proficuo (il nome di Romiti viene utilizzato come esempio calzante della cecità della classe imprenditoriale che circondava Olivetti in quegli anni).

Rileggere l’affair Olivetti e la sua parabola discendente è un utile metodo per fare una diagnosi all’Italia di oggi. Perché anche oggi la cultura generale è a bassi livelli; perché anche oggi la scuola non è adeguatamente foraggiata per costruire i talenti di cui il paese necessita; perché anche oggi l’imprenditoria non sa guardare oltre il breve periodo; perché la politica non sa proporre alcuna leadership in grado di dettare un’agenda vera ed una prospettiva forte.

Rileggere il passato della Olivetti è quindi un modo per guardare al domani per capire cosa stiamo sbagliando oggi. E la risposta è “troppo”: stiamo sbagliando troppe cose. E se non si interviene presto, la Olivetti rimarrà una chimera non più ripetibile. Perché le rivoluzioni non succedono per caso: serve impegno, serve un contesto, serve una guida, serve una cultura, serve un’idea. E l’Italia, spesso e volentieri, non ha che quest’ultima, il che equivale a buttare un seme nel deserto: al massimo qualcuno ci si nutre, ma non giungerà mai davvero a dar frutto.

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