Il grande gelo fra media e Facebook

La creatura di Mark Zuckerberg è sempre uno dei temi forti del festival di Perugia, ma il clima ora è diverso: media e Facebook sono a un punto basso.
La creatura di Mark Zuckerberg è sempre uno dei temi forti del festival di Perugia, ma il clima ora è diverso: media e Facebook sono a un punto basso.

Prima fu timore, poi amore, poi odio, oggi simulazione di indifferenza, la quale però è forse impossibile. Insomma, tra i media e Facebook non c’è mai stato un rapporto normale, ma se c’è una parola che può riassumere il clima al Festival del giornalismo di quest’anno è “freddezza”. In un’ideale continuità, molti panel si sono chiesti ciascuno a modo loro cosa ancora può fare Big F per i media e se per caso è finita una storia e tutto sommato potrebbe non essere un male.

Modellato a partire dalle sessioni di Newsgeist “Che cosa potrebbe fare Google per le notizie?”, il grande giornalista e studioso di media, Jeff Jarvis, fondatore di Buzzmachine, ha impostato la sua riflessione sul ruolo e la responsabilità di Facebook (accountability, termine ripetuto fino alla morte anche da ambienti vicini a Zuckerberg nei giorni faticosi delle udienze a Washington) rispetto al giornalismo. Un approccio che voleva essere costruttivo, ma a dirla tutta non si è mai respirata tanta negatività a Perugia. “Perché Facebook è così paternalista da decidere che io posso spendere meglio il mio tempo?”, ha tuonato Tanit Koch, l’ex direttrice di Bild, il più grande giornale d’Europa. Della volontà e della opportunità che Facebook possa fare qualcosa per i media si è discusso, certo, ma molto meno dell’argomento più di moda in questo complicato 2018: e se ognuno andasse per la sua strada?

Facebook prende ancora decisioni per i publisher, dunque i passi logici sono due, inconciliabili: preoccuparsi dei giudizi editoriali comportandosi “culturalmente” come un editore, come suggerisce Jay Rosen, oppure rinunciare completamente, come suggeriscono Koch e Vivian Schiller; mantenere un mindset tecnologico ma rinnovato, a partire dalla condivisione dei dati raccolti nella piattaforma pubblicitaria, magari con standard aperti.

Fine di un amore

Aron Pilhofer ha avuto dalla sua la doppia esperienza di responsabile editoriale digitale (del Guardian) e di cofondatore di piattaforme indipendenti, e un parterre di tutto rispetto, a partire da un Mario Calabresi particolarmente onesto e schietto. È il direttore di “Repubblica”, infatti, ad ammettere che se Facebook non avesse cercato una collaborazione editoriale per i live video oggi il suo quotidiano non avrebbe le competenze che invece ha e che gli consentono di non andare nel panico, né per la fine di questa partnership, né per la decisione di dare meno spazio nella Newsfeed alle notizie (“autolesionistica, se pensiamo che è avvenuta un mese prima del caos di Cambridge Analytica, sul quale tutti i giornali del mondo hanno impallinato Zuckerberg”). Facebook non ama, ma neppure odia i giornali: ha solo capito che il rapporto è insoddisfacente per entrambi.

Comprensione? Immaturi

La nostra comprensione di Internet e dei social è più immatura di quanto pensiamo ed è colpa del dualismo buono-cattivo, distopico-utopico. Il sociologo Nathan Jungerson, incalzato da Fabio Chiusi, ha spiegato in modo brillante come questa conversazione e in particolare le paure e le lamentele legate alla tecnologia e ai media sono antiche quanto i media stessi:

L’unica cosa che in realtà è cambiata è la piattaforma che stiamo usando oggi, rispetto all’alba del XX secolo. Non entreremo in un’era di verità, perché quell’era non c’è mai stata. Penso che la post-verità sia solo un altro nome per dire modernità e siamo lì da molto tempo.

Fabio Chiusi e Nathan Jurgenson al Festival del Giornalismo a Perugia. “Il giornalismo può liberarsi dall’idea che più informazioni significa essere più informati?”. Si sono chiesti questo e molto altro in un confronto originale che ha toccato anche Cambridge Analytica, parlando di responsabilità e ideologia, che è a parere dei relatori qualcosa che Facebook non è riuscito a fare in passato, giocando la carta della neutralità e sostenendo di non avere alcuna politica. Il che, come hanno sottolineato i recenti avvenimenti, non solo è lungi dall’essere vero, ma è proprio la persistenza nel sostenere di non avere interferenze e di non avere alcun punto di vista, rifiutando al tempo stesso di assumere giornalisti professionisti per aiutarci con le notizie, che ha portato Facebook in questo vicolo stretto.

Una conversazione adulta su questi temi? Abbandonare l’ideologia che con abbastanza dati possiamo gestire il mondo. Questo riguarda proprio lui: Facebook. E quello che incarna. Sul rapporto con esso, Fabio Chiusi, nella nostra video intervista, lamenta la caduta di ogni prospettiva “falsificazionista”, capace di capire che fatti e teorie esistono insieme. E sul gelo tra media e Facebook, il giornalista denuncia una guerra tra media a cui non si dovrebbe partecipare: “Tutto questo non produce buon giornalismo. Molto di Cambridge Analytica è marketing degli ultimi decenni, e diventa strano e pericoloso se lo dipingi come uno scandalo. Non sono contento del modo in cui operano i social media, ma nemmeno di come i media li raccontano”.

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