Lessig teme un catastrofico errore culturale

Un interessante saggio di Lawrence Lessig legge la questione Google Books da un diverso punto di vista: possiamo vendere la cultura misurandola a frasi, o a parole, o a immagini? Stiamo andando incontro ad un "catastrofico errore culturale"?
Un interessante saggio di Lawrence Lessig legge la questione Google Books da un diverso punto di vista: possiamo vendere la cultura misurandola a frasi, o a parole, o a immagini? Stiamo andando incontro ad un "catastrofico errore culturale"?

Erick Schonfeld è l’autore di un articolo molto interessante pubblicato nei giorni scorsi su TechCrunch. L’importanza dell’articolo è nel fatto che raccoglie alcuni stralci di un lungo approfondimento firmato Lawrence Lessig, fondatore e membro del board dell’associazione non profit Creative Commons, a proposito dell’accordo che Google ha proposto ad autori e editori. Lessig, infatti, approccia la materia in un modo sostanzialmente differente rispetto al passato, ignorando le frizioni esistenti tra la parte denunciante e la parte denunciata, ed arrivando a bocciare la proposta di Google con ben altre motivazioni.

Spiega Lessig: «L’accordo crea un mondo in cui il controllo può essere esercitato al livello della pagina, o magari di una frase. Questo è un mondo in cui ogni singolo bit, ogni singola parola pubblicata, può essere licenziata. Questo è l’opposto del vecchio slogan sull’energia nucleare: ogni bit viene misurato, perchè la misurazione è molto conveniente. Iniziamo a vendere l’accesso alla cultura nel modo in cui vendiamo l’accesso ai cinema, ai negozi di caramelle o allo stadio del baseball. Non creiamo biblioteche digitali, ma librerie digitali: un Barnes & Noble senza Starbucks».

Secondo Lessig, insomma, la cultura scritta potrebbe incontrare lo stesso problema che incontra la cinematografia (con riscontri ben differenti, però): se ogni parte di un prodotto può essere tutelata, allora ogni singola parte è soggetta a licenza. Così facendo, si sviluppa un sistema in cui il libro diventa un agglomerato atomizzato che non verrà più considerato, così come successo fino ad oggi, come un elemento univoco. «Nelle biblioteche reali, nello spazio reale, l’accesso non è misurato a livello di pagina (o di immagine su una pagina). L’accesso è misurato a livello di libri (o riviste, o CD, o DVD)». Lessig teme che questa disgregazione, insomma, possa essere deleteria.

Lessig non sembra saper proporre una soluzione praticabile nell’immediato, ma è certo di un fatto: «stiamo andando incontro ad un catastrofico errore culturale». Per questo la sua proposta è quella di rivedere alla base le normative sul copyright, affinché vecchie regole vengano riadattate ai tempi odierni, ove il controllo non è praticato su “pagine” ma su “bit”. In questo nuovo contesto, infatti, regolare le copie così come tradizionalmente praticato non è un concetto riciclabile poiché ogni prodotto va forzatamente copiato per poter essere fruito: è cosa intrinseca della natura dei bit e della riproduzione digitale. Una normativa riveduta e corretta potrebbe ad esempio prevedere un periodo sufficientemente lungo all’interno del quale tutelare un prodotto nella sua intera unicità (Lessig propone 14 anni) prima che si perda tale diritto e l’opera venga “atomizzata” e gestita di conseguenza.

Ma trattasi di un testo che termina senza finale. Lessig ha voluto affrontare il problema a modo proprio per capire e spiegare cosa possa succedere nel caso in cui Google giunga effettivamente ad un patto con gli autori circa la class action contro Google Books. La proiezione proposta è apocalittica, poiché delinea un mondo della cultura talmente controllato da rendere impossibile qualsivoglia opera di combinazione, ricostruzione, rielaborazione. Controllo e libertà perderebbero gli equilibri maturati nei secoli, così che per evitare rischi si giungerebbe a rinunciare alle opportunità. Non è questo che il mondo della cultura dovrebbe desiderare, e da Creative Commons giunge un appello intelligente, con una firma eccellente.

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