30 anni di Mac: parlano i dirigenti

I festeggiamenti per i 30 anni del Mac non si esauriscono con le iniziative sul sito ufficiale: a parlare di questi tre decenni sono i dirigenti Apple.
I festeggiamenti per i 30 anni del Mac non si esauriscono con le iniziative sul sito ufficiale: a parlare di questi tre decenni sono i dirigenti Apple.

La festa per i 30 anni dalla nascita del primo Macintosh continua. E così, dopo la pubblicazione di una speciale timeline sul sito ufficiale di Apple – con tanto di operazione nostalgia per gli utenti, dove indicare quando e dove si è comprato il proprio Mac – è il turno della dirigenza. In una lunga intervista per MacWorld, Phil Schiller, Bud Tribble e Craig Federighi hanno spiegato cosa rappresentino per l’azienda questi trent’anni.

Solo 15 anni fa nessuno avrebbe scommesso su Apple come leader dell’innovazione informatica, quel Macintosh 128K oggi tanto decantato negli anni ’90 era finito nel dimenticatoio. Apple era senza identità, priva del suo guru, senza troppe idee. Ma con il ritorno di Steve Jobs in azienda, è partita la rivoluzione che ancor oggi è sotto gli occhi di tutti. Cosa ha rappresentato questo periodo per chi l’ha vissuto da vicino?

Phil Schiller, negli ultimi giorni finito al centro di un battibecco social con Tony Fadell, non ha dubbi: Apple è l’unica azienda che è stata capace di sopravvivere nelle acque tormentate dell’informatica consumer. Prima con i Mac e poi per gli iDevice, il gruppo ha dimostrato la sua forza e il suo genio creativo, destinato a dominare il mercato anche in futuro.

«Tutte le compagnie che facevano computer quando abbiamo creato il Mac sono oggi tutte sparite. Siamo gli unici rimasti. Lo stiamo ancora facendo e stiamo crescendo più velocemente del resto dell’industria PC, perché abbiamo la buona volontà di reinventarci di continuo. […] Ci sono così tanti elementi di valore nel primo Mac che tutt’oggi sono riconoscibili.»

Di avviso simile anche Bud Tribble, il vicepresidente della tecnologia software di Apple e nome che solitamente non trova spazio sulla stampa dedicata, ma determinante per l’azienda:

«Una quantità incredibile di pensiero e creatività è finita nella metafora originale del Mac. Sono tracce di DNA che sono durate per 30 anni. Il segno della loro forza e dei principi che ne sono alla base – il fatto che il Mac debba essere facilmente avvicinabile e comprensibile semplicemente guardandolo, che debba piegarsi al volere delle persone e non piegare la persona alla tecnologia – si applicano anche a tutti gli altri nostri prodotti. L’elemento che ha messo il turbo al Mac è stato l’avvento di iPhone e iPad. Quell’impollinazione incrociata di idee, il fatto che i team Mac e iOS siano gli stessi, ha spinto il Mac più lontano di quanto potessi sperare.»

Questo non vuol dire, però, che iOS e OS X diverranno presto un’unica identità e nemmeno che i Mac moriranno per lasciar spazio agli iDevice. È un entusiastico Craig Federighi a spiegarlo durante l’intervista:

«La ragione per cui OS X ha una differente interfaccia rispetto a iOS, non dipende dal fatto che uno sia vecchio e l’altro nuovo. Questo device [in riferimento a MacBook Air, ndr] è stato levigato per oltre 30 anni pur di essere ottimale. […] Sbattere un touchscreen su un pezzo di hardware non è la soluzione. Abbiamo buon senso dell’estetica, un gruppo di principi che ci guida e stiamo costruendo i migliori prodotti possibili rispetto ai loro unici scopi. Quindi li vedrete sovrapporsi quando avrà senso e li vedrete differenti per quei fattori che sono critici per la loro esistenza.»

Insomma, il Mac non è destinato a morire – né a modificarsi radicalmente – sotto i colpi dei device touchscreen e dei melafonini ultra-intelligenti. Manca solo l’opinione di Tim Cook, a questo punto, che verrà svelata nelle prossime ore per un’intervista esclusiva con l’emittente statunitense ABC.

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