Artisti contro il value gap: stop al safe harbour

L'IFPI chiede all'UE un intervento per risolvere il value gap nei processi di redistribuzione degli introiti nel mondo musicale: stop al safe harbour.
L'IFPI chiede all'UE un intervento per risolvere il value gap nei processi di redistribuzione degli introiti nel mondo musicale: stop al safe harbour.

Il mondo della musica intende rinegoziare i contratti che la legano a servizi di distribuzione online quali YouTube. La vicenda non sembra aprirsi a possibili rotture tra le parti, ma è l’ennesimo scontro tra due poli che si contendono la stessa torta: gli artisti ritengono di non ricevere abbastanza in termini di diritti, per contro le piattaforme di distribuzione hanno il coltello dalla parte del manico e ricordano quanto sia stato fatto per garantire fonti aggiuntive di introiti a un mercato che si era altrimenti fatto asfittico. Normali tensioni parallele ad una trattativa in pieno corso, dalle quali scaturiscono però attriti legati a un aspetto prettamente tecnologico della partnership con YouTube.

La richiesta degli artisti è stata formalizzata in una lettera al presidente Junker, avente ad oggetto la necessaria assicurazione di un futuro sostenibile per il settore della musica in Europa. La lettera spiega come al centro della questione vi sia il “value gap“, ossia la distribuzione delle quote tra i vari attori in ballo. Gli artisti contestano in particolare l’assenza di un introito equo poiché, in un momento di grande consumo di prodotti musicali, gran parte del denaro rimarrebbe bloccato alla prima fase della catena: quanto promesso agli autori, insomma, rimarrebbe in molti casi nelle casse di chi fa distribuzione e ciò andrebbe a determinare effetti deleteri per il futuro della produzione di nuovi contenuti.

Nulla di nuovo rispetto a quanto già asserito dalla FIMI nei mesi scorsi, insomma: «I ricavi derivanti dal digitale contribuiscono per il 45% dei ricavi totali, superando quelli derivati dal comparto fisico che si attestano al 39%. In particolare, i ricavi derivanti dallo streaming crescono del +45.2%, sostenendo fortemente la crescita globale del +3.2%. Il consumo di musica nel mondo è sempre più diffuso e accessibile, ma il “value gap” resta il maggiore ostacolo per la crescita sostenibile dei ricavi per artisti ed etichette discografiche». E ancora, poche settimane più tardi a firma del presidente FIMI Enzo Mazza: «il “value gap” è il più grande ostacolo per la crescita dei ricavi di artisti, produttori e aventi diritto. È necessario un cambiamento, le istituzioni devono comprendere che il settore musicale guarda verso un cambiamento notevole e significativo. Piattaforme come Youtube hanno 900 milioni di utenti ma generano solo una parte molto contenuta di ricavi».

Recita la lettera in conclusione: «ora c’è l’opportunità unica da parte dei leader europei di risolvere il value gap. Le prossime revisioni della Commissione Europea delle leggi sul copyright possono risolvere questa profonda distorsione del mercato chiarendo gli usi appropriati del safe harbour». E lo stesso Safe harbour è definito come strumento anacronistico, pensato per le fasi di startup della nuova dimensione digitale e oggi strumentalmente utilizzato per aumentare gli introiti di grandi corporation. E trattasi di una presa di posizione con firme quali Zucchero, Biagio Antonacci, Daniele Silvestri, Francesco De Gregori, Francesco Renga, Francesca Michielin, Emma, Ruggieri, Ramazzotti, Fragola, Carboni, Pausini e altri ancora.

Il mondo della produzione fa dunque quadrato e, mentre Universal Music Group, Sony Music e Warner Music stanno ridiscutendo i termini degli accordi con YouTube, dal Financial Times emergono anche accuse più specifiche relative allo strumento del Content ID, l’elemento che dovrebbe consentire l’identificazione di contenuti protetti caricati sulla repository così da offrirne la monetizzazione condivisa agli artisti: secondo le case discografiche si tratterebbe infatti di uno strumento fallace, tale per cui gran parte della musica non sarebbe identificata e non produrrebbe pertanto introiti per i detentori del copyright. Dietro tale fallacia si celerebbe una sacca di introiti che YouTube non condivide e non elargisce, tema sul quale viene incentrata la sfida a Google in sede di trattativa.

La realtà è che di simbiosi si tratta: il mondo della musica difficilmente potrebbe fare a meno di YouTube e YouTube difficilmente potrebbe fare a meno dei contenuti protetti da diritto d’autore. La complessità della situazione sta nella necessità di trovare un punto di incontro e di equilibrio all’interno di una dinamiche che evolve quotidianamente e con grande velocità. Ma essendo questo un interesse comune, l’ottimismo sull’esito delle trattative non è in discussione: non è in ballo il “se”, ma il “quanto”.

La posizione di Google

Un portavoce di Google ha così commentato la lettera degli artisti e la presa di posizione degli stessi contro il Content ID: «I servizi digitali non sono il nemico. YouTube collabora con l’industria musicale per generare ancora più ricavi per gli artisti, in aggiunta ai 3 miliardi di dollari che abbiamo già pagato sino ad oggi. La stragrande maggioranza delle etichette e degli editori ha accordi di licenza in essere con YouTube e nel 95% dei casi sceglie di lasciare i video caricati dai fan sulla piattaforma e di trarre guadagni da questi video. Il nostro sistema di gestione dei diritti, Content ID, va ben oltre ciò che la legge richiede per aiutare i detentori dei diritti d’autore a gestire i propri contenuti su YouTube: i video caricati dai fan generano ad oggi il 50% delle loro revenue su YouTube. Infine siamo convinti che, offrendo maggiore trasparenza nelle remunerazioni agli artisti, possiamo affrontare molte di queste preoccupazioni».

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