Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph

Quando ero piccolo tutti mi scherzavano per le dimensioni del mio… portafogli. Erano gli anni ’80 e il bar vicino a casa era un punto fisso della domenica pomeriggio. Eppoi c’era la saletta con il flipper ed i due videogiochi, con il Juke Box illuminato a far compagnia.
Ma il budget era quello di un adolescente, dunque ogni “game over” (ovviamente letto senza pronuncia anglosassone) era una mazzata che partiva dal cuore e andava fino alle tasche. In bocca, puntuale, il Brooklyn, preferibilmente alla menta. Una confezione costava 800 lire. Giocare a Tetris o Wonder Boy costava 200 lire. In pochi anni, poi, la tariffa salì a 500 lire per 2 partite. Poi a 500 lire per una partita sola. In pochi anni io capii il concetto di “inflazione”. Loro capirono quello di “scarsità della domanda”.

A quei tempi il videogioco del bar era il massimo che si poteva avere. Non tutti avevano il Commodore a casa, e solo più tardi Babbo Natale mi portò l’Atari.

E giocare al bar aveva quel costo: una moneta da 200 lire. Fatte le debite proporzioni, le 200 lire di allora (il costo approssimativo di un chewing gum) possono valere circa i 20 centesimi di oggi. Oggi una console costa 300 euro circa (una media tra Wii Sport e una Xbox). A 20 centesimi a botta significherebbe 1500 partite. Ai tempi 1500 partite al bar le facevo in (10×52=520… uhm…) circa in 3 anni.

Tutto questo per confrontare sassi, ceci e piselli ed ottenerne che se compro una Xbox e la uso per 3 anni, spendo più o meno quanto spendevo ai tempi per giocare al bar. Ovviamente faccio molte più partite, ma questo perchè ora spendo tutto subito e poi è tutto gratis. L’evoluzione è questa: spendere uguale, giocare di più… e vedere il bar che chiude

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