Le cause del digital divide italiano

I ritardi italiani nel Web mettono radici in una molteplicità di cause strutturali, culturali, sociali ed economiche. Ma occorre partire dai numeri.
I ritardi italiani nel Web mettono radici in una molteplicità di cause strutturali, culturali, sociali ed economiche. Ma occorre partire dai numeri.

Il rapporto tra l’Italia e il Web è un rapporto tribolato. Lo è da sempre. La crescita è confermata, il trend è positivo, ma il ritardo è pesante e cronico. Alla base di queste difficoltà vi sarebbero tanto alcune cause circostanziali tanto alcuni elementi strutturali ormai cronicamente presenti nel nostro sistema: in ognuno di questi casi è come se il mondo online fosse soffocato, confinato in uno stato di inerzia che fa spallucce di fronte ad ogni possibilità di rivalsa.

I dati comScore recentemente pubblicati sono la fotografia più cruda e fedele del momento attuale: se in media ogni navigatore europeo è online per 26,4 ore al mese, in Italia la percentuale scende a 18,5 (la metà rispetto al Regno Unito ed ai margini della classifica continentale). Non solo: se in media ogni utente europeo visualizza 2805 pagine, in Italia la media è pari invece a 1986, anche in questo caso in posizione di rincalzo rispetto ad ogni altro paese di area UE. Numeri estremamente pesanti, quindi, ai quali non è possibile dare una spiegazione univoca. Ma ai quali è possibile invece dar spiegazione partendo da una molteplicità di fattori.

Dati comScore Media Metrix

Dati comScore Media Metrix

I motivi del ritardo

Secondo alcune fonti da noi interrogate (che per motivi di opportunità intendono rimanere anonime), la maggior parte dei cittadini italiani che afferma di non collegarsi al Web spiega di non farlo perché non in grado. La maggior parte dell’utenza italiana tagliata fuori dal Web, insomma, ammette di non avere le competenze per usare lo strumento. Una vasta parte afferma inoltre di non averne nemmeno l’interesse o di non ritenere la cosa in qualche modo utile. Sesso, età e dislocazione geografica sarebbero elementi fortemente caratterizzanti nella comprensione del digital divide, identificando pertanto donne, anziani e la provincia del sud come i fattori più penalizzanti in tal senso.

Inoltre: «ci sono inoltre alcune restrizioni geografiche soprattutto nelle zone collinari che non possono essere connesse attraverso i mezzi tradizionali a banda larga». I ritardi e la burocrazia hanno inoltre impedito a canali paralleli di connettività di trovare spazio e mercato. Una causa nota da tempo, che i numeri confermano: l’assenza di strumenti alternativi alla rete tradizionale (che l’incumbent non ha saputo rinnovare nel tempo, creando un digital divide che si concretizza soprattutto nelle zone non-metropolitane) ha frenato la penetrazione dello strumento e probabilmente è a monte anche dell’arretratezza nella cultura tecnologica diffusa. A tutto ciò si aggiunge inoltre un elemento ulteriore: «Il costo del broadband in confronto ad altri paesi è significativamente più alto in Italia e trasforma la banda larga in un lusso per gli italiani che hanno minor disponibilità economica, anche nelle città».

Ai fattori tecnici e culturali si affianca un chiaro problema sociale: «L’Information Technology sembra rappresentare un dilemma per molti italiani, per i quali la vita quotidiana pone enfasi sulle relazioni real-time o sulle comunità fisiche». Una sorta di embargo sociale nei confronti delle dinamiche dell’IT, quindi, rappresentato da un agire quotidiano che mette all’angolo l’innovazione in virtù di una maggiore inerzia sulle abitudini consolidate. Meglio una videoconferenza o una stretta di mano? Se il mercato premia la seconda, sarà buona consuetudine adeguarsi. E piegarsi pertanto ad un meccanismo che non sta al passo con il resto dell’UE.

Non senza colpe per la politica e per il governo uscente, peraltro: la visione introspettiva dell’Italia che la politica ha introiettato nel paese negli ultimi anni avrebbe rallentato l’apertura ai mercati internazionali e tarpato quella che è una dinamica della quale Internet fa parte per sua natura. Se la diffusione della Rete non ha recuperato terreno a sufficienza, insomma, la colpa sarebbe anche di chi ne ha tirate le fila tanto nella gestione delle infrastrutture (su questo punto la questione è chiara a tutti e tutti attendono risposte al Governo Monti), quanto nell’imporre un certo tipo di mentalità al paese.

Un ultimo punto da non sottovalutare è in una sorta di ciclo vizioso instauratosi nel tempo e duro a morire: la carenza della necessaria cultura non è solo in chi fruisce della Rete, ma anche in chi la crea. «L’Italia continua con vecchie pratiche IT come i siti Web infestati di Flash che sono poco più di semplici vetrine; si risponde poco alle email; la burocrazia ha reso tremendamente lento e sconveniente l’uso delle email e di Internet tra le masse».

A far da contraltare a tutto ciò v’è una luce in fondo al tunnel, ed è la luce del mobile: secondo i dati comScore la penetrazione italiana è altissima, rendendo una abitudine quella che in altri paesi è una chimera. L’Italia è avanti in qualcosa, e questo qualcosa potrà tornare utile nel breve periodo per invertire la rotta e riproporsi ai vertici dell’innovazione. Una sorta di pulsione incarnata nel tempo, accompagnata dall’abitudine e dalla convenienza relativa in termini di costo, rendono il mobile la tecnologia preferita nel nostro paese.

Si riparte di qui. Ma si riparte nella piena consapevolezza di quante opportunità si stiano lasciando per la strada a causa di una inerzia strutturale, culturale, politica ed economica accumulata in anni ed anni di errori programmatici.

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