Un secchio d'acqua collettivo

L'Ice Bucket Challenge parla di beneficenza, di viralità, di social media, ma parla soprattutto della società e delle sue pulsioni all'aggregazione.
L'Ice Bucket Challenge parla di beneficenza, di viralità, di social media, ma parla soprattutto della società e delle sue pulsioni all'aggregazione.

Il ritorno dalle vacanze è una doccia gelata. Mai come quest’anno. Tuttavia non è propriamente dell’Ice Bucket Challenge che si vuol parlare. O meglio: nel momento in cui un fenomeno come la doccia più virale di sempre viene ad emergere, è come se si aprisse uno squarcio che consente di vedere dal di dentro la società.

Occasioni come questa capitano raramente. L’Ice Bucket Challenge è diventato fenomeno di massa grazie a un impeccabile mix di ingredienti (spirito ludico, espressione dell’ego, semplicità di realizzazione, regole blande e non restrittive, finalità filantropiche) acceso dalla miccia dello star system. Un meccanismo noto e collaudato che non sempre esplode, ma che in questo caso ha manifestato invece tutta la propria forza di deflagrazione arrivando a moltiplicare i milioni di dollari versati per la ricerca sulla SLA.

Ma da questa doccia gelata se ne esce con una rinnovata consapevolezza: la rete è una piazza nel quale non solo ci sono miliardi di persone, ma ci sono miliardi di persone che parlano e che nutrono un profondo desiderio di avere argomenti comuni di discussione. Questo è quanto trasmette l’iniziativa: un hashtag, un ballo collettivo, un rito che coinvolge popoli che vanno ben oltre qualsiasi confine. C’è qualcosa di ancestrale in tutto ciò, qualcosa che nulla ha che vedere con beneficenza, ghiaccio o altro: è qualcosa che riguarda l’intimità di ognuno.

Condivido dunque sono

Buttarsi il ghiaccio in testa significa, in teoria, fare una donazione per la ricerca. Ma vuol dire anche qualcosa di più. “Guardatemi, ci sono anche io”, anzitutto: non è per forza di cose un rigurgito di egocentrismo, ma è un tassello essenziale di una comunità che interagisce sempre di più in modo asincrono e nella quale l’affermazione di presenza (ed esistenza) non fa che sostituire la mancanza di qualcosa che in passato era dato per scontato. In una società ove il dialogo tramite Facebook e WhatsApp ha sostituito l’incontro al bar, un video relativo ad una doccia gelata è l’elemento che mette in contatto con il prossimo: io faccio questa cosa e chiedo a te di farla, scambiando così un codice comune che ci rende l’uno parte dell’altro in comunione fraterna. Entrambi ci riconosciamo a vicenda e ci presentiamo alle nostre rispettive cerchie. Condivido dunque sono.

L’Ice Bucket Challenge, grazie alla propria capillare invasione delle bacheche di tutto il mondo, è diventato occasione di dibattito sotto i più disparati punti di vista: operazione opportuna? Egocentrismo ostentato e mascherato da beneficenza? Beneficenza sbandierata e quindi di minor valore? Sciocchezza messa in mano alle masse per stimolare le donazioni?

Qualunque sia il punto di vista di ognuno, per molti la sfida è stata qualcosa a cui non potersi negare: non farlo ha un significato quanto farlo, commentarlo ha un significato aggiuntivo, criticarlo è diventato addirittura poco eversivo e così via perpetrandone comunque la portata. Ed è questo il meccanismo che più di ogni altro si impone all’analisi di chi vuol guardare il fenomeno nella sua forma, invece che nella sua sostanza: la viralità non è soltanto la ripetizione dell’atto, ma anche la sua capacità di farsi argomento di dibattito quotidiano, una sorta di testimone che passa di mano in mano a colpi di nomine, tag, like, retweet e condivisioni.

Un fenomeno collettivo

Il mondo si è trovato unito nel buttarsi un secchio d’acqua in testa. Sarebbe sciocco pensare che sia un passo indietro per una umanità sempre più superficiale: guardando appena al di là dell’apparenza, a manifestarsi è una collettività che ha connessioni sempre più blande, ma che vive sulla propria pelle la pulsione viva dell’aggregazione. Se un secchio d’acqua in testa può far sentire più vicini, più uniti, meno soli, più integrati e magari anche più generosi, ben venga il secchio d’acqua in testa. Meglio ancora se ghiacciata: ci si risveglia così dal torpore e si può trovare nuova viva consapevolezza in tutta questa dinamica.

Dopodiché sarà ognuno, nella propria coscienza, a giudicare la diversità tra secchio e secchio, tra donazione e donazione, tra condivisione e condivisione. Ma tutto ciò sapendo di poterne parlare con una collettività che condivide uno stesso contesto, il cui nome non inizia con una maiuscola ma con un cancelletto: #icebucketchallenge.

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