FIMI vs YouTube: quanto vale lo streaming?

La Federazione Industria Musicale Italiana contesta le conclusioni di una ricerca commissionata da Google a proposito del ruolo di YouTube nella musica.
La Federazione Industria Musicale Italiana contesta le conclusioni di una ricerca commissionata da Google a proposito del ruolo di YouTube nella musica.

Come sarebbe il quadro dell’offerta musicale in Italia in assenza di YouTube? La domanda è fondamentale poiché dietro questo interrogativo si cela la distribuzione dei diritti, l’onere degli accordi ed in particolare l’obolo che Google deve all’industria musicale.

La risposta a questa domanda è però duplice e non trova concordi le parti: Google ha risposto da parte sua tramite una ricerca (pdf) commissionata alla RBB Economics; la FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) ha invece risposto criticando le conclusioni a cui la stessa RBB Economics è giusta sulla base dei dati raccolti.

Il punto di vista di Google

Il sondaggio RBB giunge anzitutto alla conclusione per cui l’85% del tempo speso ad ascoltare musica su YouTube sarebbe perso (fino al 50%), oppure sarebbe deviato su canali musicali di valore minore. Inoltre, in assenza di YouTube, aumenterebbe considerevolmente il tempo passato all’ascolto di contenuti pirata.

Secondo la ricerca Google avrebbe addirittura una funzione promozionale se è vero che ben il 50% degli ascoltatori abbandonerebbe completamente l’ascolto musicale nel caso in cui non dovesse più avere a disposizione YouTube. Inoltre quando un brano musicale viene bloccato su YouTube non ne consegue un sensibile corrispettivo aumento degli streaming su canali quali Spotify: la deduzione ovvia è nell’assenza di una reale correlazione tra le due dimensioni, da considerarsi in termini complementari e con limitate aree di sovrapposizione e reciproca esclusione. Lo studio, estremamente approfondito, sembra misurare in un 5% circa l’emorragia di utenti dai servizi di streaming provocato ipoteticamente dalla presenza di YouTube.

Sulla base di quanto rilevato dai 1500 utenti coinvolti dal sondaggio, insomma, la cannibalizzazione di streaming musicali addebitabile all’intenso uso di YouTube dalla propria community non sarebbe di entità importante: «nessuna evidenza», conclude la RBB Economics.

Il punto di vista della FIMI

Il punto di vista della FIMI è di tenore diametralmente opposto.

Pur riconoscendo a YouTube un ruolo nel settore musicale (il 91% degli utenti lo impiega per accedere a musica –
Ipsos Connect 2016), legato principalmente ad alimentare la popolarità di artisti e video musicali, è necessario
evidenziare che in Italia il servizio di video sharing produce un’effettiva cannibalizzazione delle piattaforme di audio streaming, ed in particolare dei servizi premium.

I calcoli della FIMI sono basati sul mercato italiano e partono proprio dai numeri della ricerca Google. Dato un tasso di cannibalizzazione ipotetico pari al 13% (quantità di utenti che, in assenza di YouTube, sposterebbero le proprie abitudini d’ascolto su servizi di streaming ad alto valore aggiunto), il valore perso dall’industria italiana sarebbe pari a circa 26 milioni di dollari. Ogni utente Spotify, infatti, vale 20 dollari all’anno mentre l’utente YouTube vale appena 1 dollaro: di qui il teorema per cui il calcolo sul danno procurato vada pesato sulla base di questo “value gap“:

Il Value Gap descrive la crescente disparità tra quello che le piattaforme di upload, come YouTube, generano
dall’utilizzo della musica ed i ricavi che tornano a coloro che lavorano per la creazione di quei contenuti
musicali ed investono in essi. I servizi upload di streaming video beneficiando della errata applicazione dei safe harbour, comprendono la più ampia audience di servizi musicale, stimata intorno ai 900 milioni di utenti.

Per la FIMI l’occasione è utile per tornare a sottolineare una teoria più volte ripetuta: occorre ridurre la differenza di valore tra le due tipologie di servizio poiché tali disparità comportano un danno oggettivo al mercato soprattutto a danno di quei servizi che invece più contribuiscono alla crescita del comparto. La conclusione è una stoccata a Google ed alla ricerca che ne supporta la posizione: «La ricerca annunciata da Google cerca ancora una volta di distrarre l’attenzione dal fatto che YouTube, sostanzialmente il maggiore servizio di musica on-demand nel mondo, non ha in realtà accordi di licenza per la musica basati su un principio equo che compensi adeguatamente artisti e produttori, e che lo ponga in un rapporto di leale concorrenza con tutte le altre piattaforme che operano proponendo la diffusione di contenuti musicali».

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