Fake news, prima regola: non chiamarle fake news

La Commissione Europea ha diramato il report sulle fake news redatto dal High Level Expert Group: analisi e conclusioni che spostano di poco il dibattito.
La Commissione Europea ha diramato il report sulle fake news redatto dal High Level Expert Group: analisi e conclusioni che spostano di poco il dibattito.

Prima regola delle fake news: non chiamarle “fake news”. Ma dopo questo primo passo condivisibile e di ottimo auspicio, il resto del report (pdf) redatto dal cosiddetto High Level Expert Group (HLEG) della Commissione Europea sembra sedersi su un cuscino fatto di dubbi, interrogativi e inconcludenza. E tutto ciò per un vizio di forma iniziale, sinceramente ammesso e difficilmente aggirabile: diventa difficile parlare di “fake news” se la prima certezza è che non le si possa definire.

Ed è così che il report conclusivo del team di esperti vede anzitutto una lunga premessa che cerca di stabilire cosa siano le fake news ragionando per sottrazione: non sono fake news, ad esempio, tutto quel che gravita nell’ambito della diffamazione, perché esistono già norme e principi utili a regolamentare, punire e trattare questo tipo di contenuti (ed i relativi responsabili); al tempo stesso non sono fake news i semplici errori che in buona fede un giornalista può fare ed un utente potrebbe divulgare. Ma già i contorni si fanno frastagliati e molti verbi al condizionale potrebbero iniziare a condire le riflessioni sul tema. E infatti si denuncia come il termine fake news sia stato ormai esteso e strumentalizzato, anche e soprattutto come arma di dileggio da parte di varie forze politiche per depotenziare le teorie della parte avversa (accusa valida per qualsivoglia forza politica nostrana, ad esempio).

Insomma, bisognerebbe quantomeno iniziare con l’evitare di parlare di “fake news”, iniziando semmai ad occuparsi di disinformazione in termini più ampi. A tal proposito Il gruppo HLEG si trova nuovamente colto su un difficile discrimine pendente su un termine ulteriore: “online”. Da più parti, infatti, traspare questa cronica tendenza al legare il concetto di disinformazione alla sua esclusiva emergenza online, come se il resto dell’informazione non fosse per sua natura coinvolto. Come se giornali e tv fossero rimasti unici baluardi del Giornalismo con la maiuscola, a combattere contro siti e piattaforme che invece gravitano su altri principi. Un pregiudizio che vizia il report fin dalle sue radici: se è vero che la galassia online, gonfiata e nutrita dalle condivisioni sui social network, merita attenzione particolare anche in virtù dello stretto coinvolgimento della pubblica opinione, al tempo stesso appare risibile pensare a principi e protocolli che eleggano un pantheon di “buoni” pronti a redigere strutture, manifesti, commissioni e regole contro i “cattivi” dell’online.

Il report vede l’Italia rappresentata nel gruppo dei 39 esperti da Federico Fubini, Gianni Riotta, Gina Nieri e Oreste Pollicino. Le conclusioni sono inconcludenti, ma non poteva essere altrimenti: l’intero report è una sorta di summa di “si potrebbe fare” che indica più una visione generale che non un vero protocollo d’azione. Insomma: «di buono, c’è che non dice poi molto che non sia di buonsenso» (Fabio Chiusi per Valigia Blu) e soprattutto suggerisce di intervenire contro le fake news con un duplice approccio: evitare di chiamarle “fake news” ed evitare di legiferare sul tema perché i metodi per combattere la disinformazione si annidano nella cultura, nel miglioramento dell’ecosistema informativo e non certo nelle carte di palazzo.

Il consiglio che si legge tra le righe è quello di investire nel Giornalismo, garantirne l’istituto ed aumentare i controlli per le piattaforme. Queste ultime sembrano però essere l’unico imputato in un processo che, per sua stessa ammissione, intende però garantire una giusta ecologia dell’informazione in senso vasto e generale. Come si potrebbe aiutare il giornalismo a crescere nel senso della qualità? Con un taglio delle tasse (a partire dall’IVA), con il finanziamento di progetti transnazionali di collaborazione, con l’aiuto concreto per nuovi modelli di sperimentazione: ancora una volta una indicazione utile ma vaga e poco argomentata.

Insomma: si parla di fake news, ma non le si deve chiamare fake news, ma la notizia viene divulgata sotto il cappello di report sulle “fake news”. Si parla di giornalismo, ma si punta il dito contro le dinamiche online. Si cercano protocolli di azione, ma si suggerisce di non intervenire. Forse le aspettative sul report erano troppo alte, o forse l’istituzione stessa di un team di “esperti” ha alzato troppo l’asticella per una montagna che ha prodotto infine il classico topolino. Il problema è che quello che poteva essere un punto di partenza rischia di non esserlo, non fino in fondo, non quanto ci si sarebbe attesi. Bisogna però far giocoforza tesoro di quei pochi passi avanti che son dati per acclarati. A partire dal fatto che smetterla di parlare di “fake news” potrà aiutare molto nella comprensione della più complessa vastità delle sfumature dell’informazione in quella gamma infinita tra il Vero e il Falso. E che investire nell’informazione di qualità, responsabilizzando tutti in proposito, è un passaggio fondamentale verso quell’evoluzione generale della società a cui si deve ambire mentre suonano le trombe dell’innovazione.

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