Big Data, tra consapevolezza e paure

Al Festival della TV e dei Nuovi Media di Dogliani (CN) ci si confronta sui Big Data e su ciò che possono rappresentare per il futuro del giornalismo.
Big Data, tra consapevolezza e paure
Al Festival della TV e dei Nuovi Media di Dogliani (CN) ci si confronta sui Big Data e su ciò che possono rappresentare per il futuro del giornalismo.

Al Festival della Tv e dei Nuovi Media di Dogliani (CN) si parla molto di televisione e molto poco di nuovi media. Non potrebbe essere altrimenti, visto un parterre che, pur se di tutto rispetto, riflette più i venti anni passati sul piccolo schermo che non i prossimi venti sugli schermi piccolissimi degli smartphone. Ed in questo clima quasi di sfida tra un passato che non vuol finire ed un futuro che ha fretta di iniziare, si sono snocciolati dibattiti che spesso e volentieri hanno avuto il fil rouge del ricordo, della tv che è stata e dei pericoli che vive oggi nella sfida con il Web.

Big Data cuore del nuovo giornalismo?

Tra i pochi panel ad affrontare il tema delle nuove tecnologie, un tema si impone su tutti: i big data. Il primo dibattito in particolare porta sul palcoscenico Vincenzo Morgante (Direttore TGR Rai), Annalisa Bruchi (giornalista e autrice televisiva), Emilio Targia (caporedattore di Radio Radicale e stimolante moderatore del panel), Marco Bardazzi (Direttore Comunicazione Esterna ENI) e Gianni Riotta (Editorialista de La Stampa). «Perché le notizie possano ancora fare la differenza bisogna avere la capacità di sviluppare un pensiero critico. La necessità di saper distinguere tra informazioni e opinioni, come interpretare e analizzare i dati e quale ruolo avranno il giornalismo e la comunicazione in questa epoca di cambiamenti»: un tema profondo e complesso, da affrontarsi in un tempo troppo limitato per dare sufficiente copertura a tutte le sue sfaccettature, ma al tempo stesso particolarmente importante ed in grado di mettere in immediata evidenza l’incredibile differenza tra due modi opposti di approcciare il problema.

L’esordio avviene per voce di Annalisa Bruchi, secondo la quale i nuovi media «hanno fatto male al giornalismo». L’argomentazione verte su più aspetti, ma in particolare sul fatto che i big del Web hanno sottratto mercato ai media tradizionali ed al contempo i social hanno sottratto lettori. Venendo a mancare le basi, i media tradizionali hanno pagato dazio e, in situazione di stringente difficoltà, si trovano oggi a non poter più assolvere al meglio al proprio ruolo di filtro, di fonte, di elemento mediatore autorevole ed affidabile. I social network avrebbero però il difetto di fornire una informazione grezza, priva della qualità di un apporto proprio del giornalismo, ed al tempo stesso servirebbero normative per limitare le derive di troll e hater che ne inquinano il dibattito e la condivisione.

La prima replica è affidata a Marco Bardazzi, il quale capovolge il punto di vita: sebbene sia conclamato lo stato di difficoltà dei media e del giornalismo, ciò è causato in modo particolare da una imperante tendenza alla disintermediazione che coglie impreparati gran parte degli attori del mondo giornalistico tradizionale. Per i media che non sapranno riorganizzarsi, quindi, le prospettive sono potenzialmente catastrofiche. Una delle possibili soluzioni nella gestione di questo passaggio, per il giornalismo così come per le grandi aziende, è la costruzione di una comunicazione “data driven” che, partendo dai Big Data, possa contribuire ad una evoluzione nella costruzione del messaggio, nella trasmissione di una interpretazione e nell’approdo ad un senso critico aumentato in grado di ripristinare l’autorevolezza perduta. La dimostrazione di come Eni stia lavorando su questo fronte è data dal Data Lab del gruppo che, proprio all’evento di Dogliani, ha dimostrato come l’analisi delle discussioni possa aiutare una azienda a lavorare in modo più efficiente nel dibattito globale e sui temi più vicini alle tematiche individuate.

Secondo Morgante il Web ed i suoi fenomeni correlati vanno interpretati come una «scossa positiva» per il giornalismo: la categoria nel suo complesso era ormai da troppo tempo seduta e inerte, ma si è trovata improvvisamente a dover affrontare realtà nuove, rapide, flessibili, competitive e spesso anche qualitative. Tocca ora al giornalismo ripensare sé stesso, ridisegnare le proprie pratiche, riscrivere le proprie regole ed adattarsi ad un contesto ormai troppo profondamente cambiato per pensare anche solo lontanamente che si possa tornare indietro: il vecchio giornalismo è morto, ne nascerà una forma nuova (costruita sull’informazione Glocal e sulla verità che emerge dai dati) e nel frattempo occorre lavorare per trovare la giusta direzione. Per trovarla, la parola chiave è quella della “consapevolezza”: misurare, capire, conoscere come basi per una evoluzione matura.

Gianni Riotta è ripartito dalla parola chiave: “Big Data”. Ma ha voluto precisare come sia futile fermarsi ad una accezione quantitativa dei Big Data, poiché solo una interpretazione qualitativa è realmente in grado di esplicare ciò che Intelligenza Artificiale e Machine Learning saranno in grado di portare sul mercato. Il vantaggio degli algoritmi rispetto all’uomo sta nella loro neutralità e nella loro velocità: la macchina, a differenza della persona, non si innamora delle proprie posizioni, non si autoconvince delle proprie idee ed è disposta a cambiare output ad ogni singolo mutare degli input. Di qui, giocoforza, l’inutilità della difesa di quel che è stato come mera resistenza a quel che sarà: «o scommettete sul futuro, o declinerete presto nel passato».

La tesi di Riotta è stata rafforzata dall’ulteriore approfondimento di Marco Bardazzi, che ne ha evoluto il concetto partendo da una delle basi della teoria della comunicazione: media come i social network vanno intesi più come luoghi che non come mezzi (una dicotomia tanto sottile quanto essenziale). Se è vero che le interazioni che abbiamo sui social network definiscono la nicchia entro cui più o meno consapevolmente ci chiudiamo, occorre educare noi stessi (come singoli e come attori sociali) ad interagire non soltanto con ciò che ci piace, ma con tutto ciò che reputiamo interessante.

Occorre insomma imparare a vivere bene nei luoghi in cui viviamo invece che plasmare i luoghi in base ai propri desideri. Per questo stesso motivo, e per logica evidenza, non si risolve quindi un problema come il bullismo con un algoritmo: «insegniamo ai nostri figli l’amicizia e sapranno da soli come stare sui social».

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