Ma la Cina nega

La Cina nega, con forza. E contrattacca. Le istituzioni del paese non accettano l'incursione di Hillary Clinton nei problemi con Google e chiede agli Stati Uniti un atteggiamento meno ipocrita circa la sicurezza sul Web e la libertà di espressione
La Cina nega, con forza. E contrattacca. Le istituzioni del paese non accettano l'incursione di Hillary Clinton nei problemi con Google e chiede agli Stati Uniti un atteggiamento meno ipocrita circa la sicurezza sul Web e la libertà di espressione

Le prove non sono chiare, le dimostrazioni latitano, ma gli indizi sembrano andare tutti nella medesima direzione: la Cina ha in qualche modo spalleggiato l’attacco contro Google e le altre multinazionali i cui sistemi avrebbero subito nei mesi scorsi indebite incursioni. La denuncia di Google ha un referente chiaro: le istituzioni Cinesi sono responsabili per quanto accaduto, e di qui le ritorsioni dettate da Mountain View con la rimozione dei filtri e la clamorosa pubblica accusa che ha scatenato l’attuale guerra di parole. La Cina ha respinto più volte le accuse, ma nel weekend lo ha fatto con maggior forza e maggior decisione rispetto ai giorni passati, tornando sull’argomento non solo per difendersi, ma anche per contrattaccare.

Un portavoce del Ministro degli Esteri ha infatti spiegato all’agenzia cinese Xinhua: «Le accuse per cui il governo cinese avrebbe partecipato a qualsivoglia cyberattacco, sia in modo esplicito che in modo non esplicito, sono senza fondamento e mirano a denigrare la Cina. Ci opponiamo con forza a ciò». Dopo le accuse di Google, il Segretario di Stato USA Hillary Clinton è entrata duramente sull’argomento, spostando così rapidamente il problema da una base tecnico-economica ad un piano più specificatamente politico. La Cina non ha accettato però questa accusa ed ora il clima si fa sempre più rovente con scambi reciproci di accuse: «La policy della Cina sulla sicurezza su Internet è trasparente e coerente».

Dalla difesa alla controaccusa il passo è estremamente breve: «Gli Stati Uniti sono il primo paese a lanciare la guerra cyber», così un giornale di partito porta avanti la battaglia anti-occidentale spiegando che l’esercito informatico USA avrebbe 80 mila persone e 2000 virus assoldati alla causa. Quel che la Cina vede nelle parole di Hillary Clinton è un intervento ipocrita e anti-cinese, una «interferenza ingiustificabile» che vuole alzare la pressione su di una nuova Guerra Fredda. Il Ministro degli Esteri cinese, dopo aver mandato in avanscoperta i propri portavoce per molti giorni, interviene infine con un messaggio chiaro: «Chiediamo che gli Stati Uniti rispettino i fatti e la smettano di usare i problemi della cosiddetta “libertà di espressione” per criticare la Cina senza ragioni».

Gli Stati Uniti accusano, e continuano a considerare le istituzioni cinesi colpevoli per quanto accaduto. Ma la Cina nega, ricordando anzi di essere spesso essa stessa vittima di cyberattacchi. Fa discutere, nel frattempo, il teorema lanciato dalla CNN contro Google: gli sviluppatori Gmail avrebbero previsto una vera e propria backdoor riservata alle istituzioni da cui poter accedere ad informazioni sugli account della casella di posta. Tutto ciò in più nazioni, con caratteristiche specifiche per ogni singola realtà. Secondo la CNN i cracker cinesi avrebbero approfittato della backdoor per avere accesso alle informazioni cercate. Un meccanismo segreto per controllare utenti potenzialmente pericolosi, insomma, potrebbe essere stato utilizzato da malintenzionati, dimostrando così il pericolo di un Panopticon di stato a prescindere dall’uso che ne vien fatto. Ogni tecnologia per la sorveglianza, se non ben protetta, diventa un pericoloso boomerang. Ma il mondo occidentale ne avrebbe fatto generoso uso in passato.

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