Denunciato dalla RIAA, ma non ha nemmeno il PC

Grave scivolone per la società che cura gli interessi delle etichette musicali statunitensi. Dopo il caso Jammie Thomas, stavolta l'accusato non possiede un pc ed il sospetto è che MediaSentry abbia ancora una volta sbagliato ad attribuire l'indirizzo IP
Grave scivolone per la società che cura gli interessi delle etichette musicali statunitensi. Dopo il caso Jammie Thomas, stavolta l'accusato non possiede un pc ed il sospetto è che MediaSentry abbia ancora una volta sbagliato ad attribuire l'indirizzo IP

Non aveva nemmeno il computer, eppure la RIAA l’ha citato in tribunale per violazione della legge sul copyright tramite P2P. L’ultimo caso in ordine di tempo che vede protagonista il consorzio che riunisce le etichette musicali statunitensi è uno dei flop più grandi di sempre.

A monte dell’errore sembra esserci MediaSentry, la società (a sua volta indagata in più occasioni) che negli ultimi anni è stata il braccio armato della RIAA, incaricata di lavorare con mezzi più o meno leciti per raccogliere prove contro gli utenti da denunciare. Sembra che ancora una volta la società, procedendo a tentoni nel mondo degli indirizzi IP, abbia sbagliato ad identificare l’utente. E non è la prima volta che accade. Eppure la RIAA aveva da poco promesso che avrebbe smesso di portare utenti in tribunale.

Non sembra infatti che le cause (che quasi sempre si risolvono in un patteggiamento e quindi in una sanzione economica per gli utenti) portino buona nomea e guadagno al mondo del business musicale. Anche nel caso di Jammie Thomas, recentemente condannata a pagare 1,92 milioni di dollari per aver scaricato 24 canzoni, le reazioni sono state più che altro di sdegno.

Sorprende soprattutto come parole di scuse arrivino dai musicisti coinvolti in quella vertenza: «Sono sempre stato contro il download illegale. Ma sono anche sempre stato dalla parte dei fan della musica di cui le avide etichette hanno abusato finanziariamente più volte nel tempo» ha dichiarato il cantante Richard Marx: «le etichette fino a poco fa responsabili della distribuzione della maggior parte della musica non hanno fatto che ingrossare le proprie casse senza fare il bene dell’industria».

A Marx fa eco dal suo sito ufficiale Moby, anch’egli coinvolto suo malgrado nella causa Thomas: «E sarebbe così che le compagnie intendono tutelarsi? Facendo causa a mamme che vivono in quartieri residenziali? Pretendendo 80.000 dollari a brano? Punire le persone perchè ascoltano musica è la maniera più sbagliata per proteggere la musica».

Addirittura Gary Wade Leak, avvocato di Sony e testimone chiave del processo si è detto scioccato dalla cifra pretesa. A sua detta la vittoria era certa, ma pensavano che la cifra sarebbe stata ridotta di molto e la speranza è di tornare agli originali 220.000 dollari in appello.

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