Giornalisti, non persone

Il Washington Post ha chiesto ai propri giornalisti di astenersi dal portare sulla pubblica piazza (leggasi: social network, blog, commenti) le proprie opinioni personali. Una lettera del tutto esplicita invita i dipendenti del giornale dall’esimersi nel trasmettere qualsivoglia informazione possa far trasparire una inclinazione politica, una sfumatura ideologica o cos’altro.

Ok, il confronto con l’Italia non regge: qui se non traspare un’idea probabilmente non verrà trovata collocazione nella giusta redazione. Qui l’idea deve essere invece forte e chiara, possibilmente pretestosa, comunque urlata, pena l’esclusione da un mondo dell’informazione sempre più inquinato e deviato. Ma la riflessione vuol basarsi su un’altra questione: i panni sporchi vanno lavati in casa e la macchietta del giornalismo italiota andrà pertanto esclusa da questo discorso che viaggia su principi ben più raffinati.

Chiedendo ai giornalisti di esimersi dall’esprimere opinioni personali, il Washington Post:

  • annulla il lato personale dei giornalisti stessi, chiedendo loro di annullare una dimensione che prende forma comunque al di fuori dell’ambito lavorativo;
  • cancella la trasparenza, offuscando il significato delle firme in calce agli articoli nel nome di una neutralità tutta da dimostrare;
  • stralcia di fatto un certo tipo di giornalismo, fatto di indagine e di opinioni sbilanciate nel nome della verità;
  • si richiama ad un generale concetto, basilare e teorico, del giornalismo da “cronaca”, dimenticando quello più nuovo e pratico di un giornalismo vissuto, fatto di link e citazioni, prove e ricerche;
  • si costringe il giornalista a non interagire, annullando così una dimensione con cui la rete ha promesso di arricchire il giornalismo stesso. Nell’interazione il lato umano è imprescindibile, ed annullarlo per partito preso appare un modo ingenuo di intervenire sul problema.

La scelta del Washington Post è sicuramente dettata da motivazioni interessanti quali il mantenimento di una rigida linea editoriale, il cui controllo dipende anche dall’autocontrollo dei singoli giornalisti impegnati. L’intervento, però, sembra essere un bazooka usato per uccidere una mosca: il controllo, al giorno d’oggi, non può più essere praticato con la censura, ma semmai con una verifica quotidiana. Se dunque il Washington Post intende davvero avere il controllo dei propri giornalisti, farebbe bene ad incoraggiare le loro opinioni, i loro tweet, i loro post: così facendo ne monitorerà le opinioni e le tendenze a cadenza quotidiana, evitando improvvise ed indesiderate deviazioni. Controllo e proibizione sono concetti differenti, la cui correlazione può solo essere artificiosa.

O no?

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