Dal MIT un chip alimentato dall'orecchio

Al MIT di Boston hanno dimostrato di poter usare l'energia prodotta dalle vibrazioni presenti nell'orecchio per alimentare chip elettronici.
Al MIT di Boston hanno dimostrato di poter usare l'energia prodotta dalle vibrazioni presenti nell'orecchio per alimentare chip elettronici.

Le tradizionali batterie che alimentano numerosi chip elettronici attualmente in commercio potrebbero presto divenire obsolete: uno studio condotto da alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology di Boston hanno infatti dimostrato la possibilità di alimentare piccoli chip mediante l’energia prodotta dalle vibrazioni della membrana presente nell’orecchio a causa dei suoni provenienti dall’esterno. Il progetto al momento è ancora in fase di evoluzione, ma sembrerebbe ben promettere per il futuro.

Il problema principale da risolvere è la scarsa quantità di energia prodotta da tali vibrazioni, le quali creano dei segnali elettrici inviati al cervello che si occupa di interpretarli nel migliore dei modi. Di tale energia, inoltre, è possibile sfruttarne soltanto una frazione per evitare di arrecare danni all’udito o comunque di interferire con il normale flusso di informazioni tra orecchio e cervello. Per tale motivo i chip che sarà possibile adottare dovranno essere a bassissimo consumo energetico e non potranno quindi svolgere funzioni avanzate.

Niente orecchi bionici o altre idee degne di un film di fantascienza, insomma, bensì esclusivamente applicazioni riguardanti il settore medico e della diagnostica: possibile infatti che tali chip possano essere utilizzati in futuro per ottenere informazioni sui pazienti direttamente dall’interno dell’orecchio, potendo comunicare con dispositivi esterni preposti alla raccolta di dati. Inoltre, secondo gli studiosi del MIT tali chip potrebbero essere adoperati anche per migliorare le cure e le terapie disponibili ad oggi per quanto concerne i disturbi all’udito.

Kostantina Stankovic, ricercatrice del MIT che ha lavorato al progetto, ha sottolineato come «sia noto che tale batteria esista e sia importante per l’udito da oltre 60 anni, ma nessuno ha mai provato ad utilizzarla per alimentare dispositivi elettronici». La sfida lanciata dall’istituto di Boston sembra dunque per il momento parzialmente vinta, benché oltre ai problemi legati al miglioramento del rendimento energetico vi sia ancora da eseguire le necessarie sperimentazioni in contesti umani, avendo i ricercatori lavorato esclusivamente su cavie da laboratorio.

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