Google ha vinto: è assoluzione in Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato l'assoluzione per i tre dirigenti Google condannati in primo grado per un filmato caricato su Google Video nel 2006.
La Corte di Cassazione ha confermato l'assoluzione per i tre dirigenti Google condannati in primo grado per un filmato caricato su Google Video nel 2006.

La Corte di Cassazione ha messo il punto definitivo alla vicenda che ha visto Google nell’occhio del ciclone per un video caricato sull’allora Google Video: una storia che dura ormai da anni, che era iniziata in modo problematico per il gruppo di Mountain View e che alla fine si è conclusa con un lieto fine sotto molti punti di vista.

Il caso è esploso nel 2006: un video caricato sulla repository Google ritraeva la violenza compiuta nei confronti di un ragazzo disabile da parte di alcuni compagni di classe. Immagini raccapriccianti, relative ad una scena avvenuta all’interno di una scuola di Torino. Il video è stato online per alcune settimane, raccogliendo 5500 visualizzazioni, fin quando è stato rimosso a seguito di specifica segnalazione. Ma l’incendio era ormai divampato: Google era stato additato per non aver rimosso immediatamente il filmato e la denuncia portò immediatamente alla ribalta un nuovo bilancino di responsabilità.

Contro Google venne eretto un castello di accuse firmato dall’associazione Vividown: il video arrecava infatti anzitutto un danno personale alla vittima dell’abuso, ma il caso si sviluppava con tutta evidenza anche verso ambiti ulteriori e legati ad una più generale necessità di regolamentare un ambito nuovo e delicato quale quello delle repository video online nelle quali è l’utente a caricare i contenuti ed a rendersi protagonista degli stessi.

La condanna

Dalla indagini si passò al processo e Google ne uscì in malo modo: condannati David Carl Drummond, ex presidente del cda e legale di Google Italy, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy e Peter Fleischer, responsabile policy Google sulla privacy per l’Europa. La sentenza infligge 6 mesi di reclusione con pena sospesa (la richiesta da parte dell’accusa era stata pari a 6-12 mesi). Assolto Arvind Desikan, inizialmente coinvolto nelle indagini.

Anche se la Legge Italiana sulla Privacy fosse applicabile, Google avrebbe operato nel suo pieno rispetto. Analizzando in modo dettagliato i fatti e le leggi vigenti, è chiaro che la responsabilità dei danni provocati al ragazzo e allìassociazione Vivi Down sono attribuibili a chi ha compiuto lìatto di bullismo, a chi lo ha filmato e a chi ha caricato il video su Internet, mentre Google Video ha operato nel pieno rispetto dei suoi obblighi legali. Anche i Garanti Europei si sono espressi in questo senso nel recente parere sui social network, prescrivendo espressamente che sia lìutente a chiedere il consenso al soggetto ritratto.

Come potrebbe Google verificare a priori tutti i contenuti caricati? Nemmeno con un lavoro capillare e continuo si potrebbe passare al vaglio la quantità di materiale che ogni giorno l’utenza riversa sui server del gruppo. Il principio e la concretezza vanno dunque nella stessa direzione: non è credibile una sentenza che scarica ogni responsabilità sul servizio, il quale si fa semplicemente strumento nelle mani di chi invece dovrebbe rispondere direttamente per le proprie azioni.

Ma il problema, nato specificatamente in seno ad un servizio Google, diventa automaticamente un caso generale che mette in pericolo più il Web italiano che non i soli protagonisti del misfatto: se il principio è affermato dalla sentenza, allora qualsiasi servizio che offre spazio ai contenuti degli utenti vede sul proprio destino una spada di Damocle non accettabile per la costruzione di un business.

L’appello

La sentenza di appello inverte le sorti del procedimento: “il fatto non sussiste”. Google viene dunque sgravato da ogni responsabilità e la cosa vale ancora una volta tanto per il caso specifico (come da giurisprudenza), quanto per il caso generale (evitando di affermare un principio che sarebbe stato estremamente pericoloso per l’evolversi del mercato in Italia).

L’appello si conclude nel dicembre del 2012, ad ormai 6 anni dall’inizio dell’intero procedimento.

Il caso è chiuso

La sentenza odierna chiude il cerchio: la sentenza di appello è confermata, non vi sono margini ulteriori per una riapertura del processo ed il caso va dunque in archivio confermando la non-responsabilità del provider.

Dichiara un portavoce Google: «Siamo felici che la Corte di Cassazione abbia confermato l’innocenza dei nostri colleghi. Di nuovo, il nostro pensiero va al ragazzo e alla famiglia. La decisione di oggi è importante anche perché riconferma un importante principio giuridico».

Parole importanti: il primo pensiero è rivolto al ragazzo vittima delle ingiurie dei compagni ed alla sua famiglia, la quale ha presto compreso il ruolo di Google nella vicenda e si è defilata dall’accusa; il secondo pensiero va invece alla proiezione che il caso ha avuto nella pubblica opinione, ricordando come la vittoria di Google sia stata una vittoria della Rete nel nostro paese.

Nel frattempo, però, molte cose sono cambiate. E rivedere quanto accaduto è utile poiché evidenza l’importanza che il dibattimento ha comunque avuto a prescindere dal caso specifico e dalla sentenza conclusiva.

Il percorso

La guerra tra Vividown e Google ha sì messo in luce l’importanza del non attribuire al provider eccessive responsabilità sui contenuti caricati dagli utenti, ma al tempo stesso ha anche permesso di riflettere e far chiarezza sulla questione. La responsabilizzazione degli utenti circa quanto caricato in rete, infatti, è un fatto culturale che necessita di divulgazione ed educazione, poiché occorre intraprendere un percorso pedagogico che cancelli l’idea del “far west telematico” che in troppi temono sul Web.

Al tempo stesso, sebbene il provider venga scagionato, viene altresì inchiodato ad una sorta di responsabilità “etica” oggettiva tale per cui è necessario almeno dimostrare di aver fatto il possibile per evitare che un caso come quello in oggetto possa nuovamente accadere. Da allora, infatti, Google ha infatti migliorato notevolmente la propria capacità di analisi delle segnalazioni provenienti dalla community, ha accelerato i tempi di reazione al cospetto di video pericolosi ed ha così ottimizzato il servizio fornito agli utenti. Oggi un caso come quello della scuola di Torino non potrebbe probabilmente più accadere, perché se in qualunque momento chiunque potrebbe caricare un caso simile, al tempo stesso chiunque potrebbe segnalarne l’inopportunità (la stessa Vividown è coinvolta nel sistema di monitoraggio) e Google avrebbe strumenti migliori e più efficaci per intervenire entro poche ore.

Il percorso processuale e la sua divulgazione hanno consentito insomma di maturare una maggior consapevolezza in tutte le parti coinvolte: Google ha migliorato il servizio (maturato peraltro anche con il passaggio da Google Video a YouTube), l’utenza ha assorbito un maggior senso di responsabilità e la società ha intuito come casi di questo tipo non siano soltanto dannosi. Grazie al video, infatti, è stato possibile venire a conoscenza di quanto accaduto tra le mura di un istituto scolastico, salvaguardando così la vittima da ulteriori abusi. L’importanza dei contenuti user generated è anche questa, e la maturazione di una nuova cognizione web-based consente di intervenire sulla limitazione della divulgazione dei contenuti invece che sulla necessità di una loro censura a priori.

Se è importante il punto di approdo dell’intero procedimento, con una sacrosanta assoluzione per i tre dirigenti Google coinvolti, è ancor più importante il percorso lungo il quale si è snocciolato il processo. Tra il primo grado e la Cassazione c’è stata non soltanto l’evoluzione di un processo penale, ma anche la maturazione di un intero paese. Perché è anche attraverso gli errori che una società ha il dovere di crescere.

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