Facebook: il post più condiviso è contro Trump

Il post più condiviso nella storia di Facebook è una lettera contro Donald Trump, ma non è soltanto politica: riguarda anche i social e loro algoritmi.
Il post più condiviso nella storia di Facebook è una lettera contro Donald Trump, ma non è soltanto politica: riguarda anche i social e loro algoritmi.

“Mr. Trump, faccio del mio meglio per non essere politico”. Non è una storia divertente, né un lettera ai figli, alla madre, all’amore di un vita, neppure una dichiarazione animalista, vegana, una tesi complottista. Il post più condiviso dell’intera storia di Facebook inizia così ed è stato scritto dal fotografo Brandon Stanton, creatore di Humans of New York, una delle più amate pagine del social network. Un caso web 2.0 ora entra nella incredibile campagna elettorale americana, segnata dalla figura di Donald Trump, e mette in primo piano due grandi livelli mediatici, quello della rete contro quello televisivo.

I numeri di questo post pubblicato la scorsa settimana hanno frantumato vari record: un milione e 120 mila condivisioni, 2,2 milioni di like, 68 mila commenti, e quello di Hillary Clinton in bella vista. La base di partenza era buona, HONY conta più di 17 milioni di iscritti ed è un vero caso scuola, forse la più bella e influente pagina Facebook d’America per la stupenda semplicità con la quale pubblica a cadenza regolare fotostorie di persone della Grande Mela, ognuno capace di raccontare uno spicchio di vita della città multiculturale per eccellenza. E forse proprio la sensibilità “arcobaleno” di Stenton ha promosso questa eccezione – un testo privo di immagine – per puntare il dito contro il candidato repubblicano distintosi per la sue dichiarazioni aggressive nei confronti degli immigrati.

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Una spaccatura mediatica?

Il dibattito politico qui non importa, il fenomeno social invece sì. Si sono spese milioni di parole sulla crossmedialità, sulla comunicazione politica omnichannel, eppure mai come nel caso di Trump si è vista una tale distinzione tra la campagna online e quella prepotentemente mainstream del repubblicano, che è riuscita a creare una situazione per cui più l’immagine copre i media tradizionali con critiche negative più sale la sua popolarità all’interno delle primarie dell’elefantino. Sui social è completamente diverso, l’indignazione popolare per le opinioni del tycoon finora non ha scalfito la particolarissima comunicazione, fatta di sparate, che gli consente di essere sempre la prima notizia dei telegionali e di risparmiare milioni di dollari in pubblicità (secondo mediaQuant ha guadagnato l’equivalente di quasi due miliardi di dollari di visibilità gratuita sui media). Una strategia firmata da Corey Lewandowski e con la consulenza su Twitter, usato per attaccare gli avversari e contrastare i giornalisti, della 26enne Hope Hicks, figlia d’arte delle pubbliche relazioni negli Usa. Memorabile la lunga diatriba con la giornalista di Fox News Megyn Kelly.

E se ci fosse lo zampino di Facebook?

Ecco perché non è possibile derubricare l’evento social di Facebook a semplice fenomeno naturale dell’opinione pubblica. Già qualcuno sospetta che di mezzo ci sia il patto della Silicon Valley contro Trump. Se, per ipotesi, Facebook volesse spingere un post favorendo le condivisioni e il coinvolgimento potrebbe farlo senza fatica e nessuno se ne accorgerebbe mai, visto che gli algoritmi sono di sua esclusiva conoscenza. La nebulosità dell’algoritmo (lo stesso vale per Google e tutti i motori di ricerca, argomento finito in una puntata della quarta stagione di “House of Cards”) autorizza a pensare che un social network abbia volontariamente spinto un contenuto per contrastare una scheggia mediatica impazzita?

Il problema restano sempre gli algoritmi. Sappiamo che le web company odiano Trump e probabilmente il politico avrà buon gioco a sostenere che Facebook sta cercando di ostacolarlo, facendo affidamento ad argomentazioni valide quanto quelle di chi pensa sia solo complottismo o vittimismo, non esistendo certezze. Va aggiunto che le condivisioni sono un elemento di grande visibilità e viralità assai più dei like, soprattutto alla luce delle nuove versioni Reaction. Non esiste attualmente uno strumento semantico efficace per misurare quanto questi numeri straordinari siano effettivamente dello stesso segno dell’autore del post.

Sì, la rete è entrata di prepotenza nelle primarie, ma in modo completamente diverso da quanto fatto in questi ultimi otto anni da Barack Obama. Da una singolarità all’altra, da una predominanza all’altra, i social network potrebbero rappresentare una forma di resistenza neanche tanto nascosta, e un player dal peso e dalle caratteristiche completamente ignote alla democrazia fin qui.

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