Siti responsabili per i commenti? No, ma attenti

La Cassazione ha condannato il gestore di un blog per non aver rimosso un commento diffamatorio: è un caso molto specifico, ma non va sottovalutato.
La Cassazione ha condannato il gestore di un blog per non aver rimosso un commento diffamatorio: è un caso molto specifico, ma non va sottovalutato.

Una sentenza della Cassazione in merito a un caso di diffamazione tramite un sito sta facendo molto discutere perché sembra in consonanza con vecchie e mai sopite tentazioni di equiparazione dei blog alla responsabilità editoriale che ricordano i (brutti) tempi dei primi anni Duemila. Il gestore di un sito che si occupa di sport è stato infatti condannato per concorso alla diffamazione del presidente della FGCI, Carlo Tavecchio, dato che non ha rimosso per tempo un commento da parte di un utente. Forse però non è il caso di parlare subito di omesso controllo come fosse un direttore responsabile.

La sentenza va letta bene per capire come si tratti effettivamente di un caso al limite. Da un lato, si tratta di un semplice caso di diffamazione – sempre reato ovunque si consumi (questo per dirlo a quelli che definiscono ancora il web come “far west”) – che non solleva una responsabilità oggettiva del provider come da pluriennale giurisprudenza europea. Dall’altro, il gestore del sito, che è stato condannato e dovrà pagare 60 mila euro di danni a Tavecchio, sostiene di non essere mai stato a conoscenza di questo commento diffamatorio a proposito dell’uomo – definito “emerito farabutto” e “pregiudicato doc” – finché non ha ricevuto una lettera di sequestro del sito una volta tornato dalle vacanze. La persona che diffamò Tavecchio ha invece mostrato di aver mandato una mail contenente in allegato il certificato penale del dirigente sportivo oggetto dei suoi strali. La domanda è: sapere e non togliere un commento equivale a parteciparvi intellettualmente?

La corte d’appello e poi la Cassazione hanno attribuito una responsabilità “in concorso” e qui bisogna capire cosa è successo. Ha prevalso l’idea, come spiega la sentenza, che il ricorrente, cioè il titolare del blog, sapeva del commento e lo ha lasciato consapevolmente? Oppure il titolare del blog viene rimproverato perché “doveva sapere” e non poteva non sapere? Secondo l’avvocato Fulvio Sarzana, la lettura della sentenza fa intuire che il gestore avrebbe dovuto verificare tra i commenti l’esistenza di un commento diffamatorio, senza che fosse stato direttamente avvertito, a meno di dare risalto a quella mail (e qui sta il punto: non è chiaro se in questa mail la persona abbia accennato al fatto che aveva fatto quel certo tipo di commento oppure no: nel secondo caso, effettivamente è complicato immaginare a quale dovere di controllo fosse obbligato il gestore). Con questo orientamento, dice Sarzana, «rischia di essere molto difficile gestire un sito web che abbia commenti» aumentando la possibilità di autocensure e scelte di male minore, a detrimento della libertà di espressione. In un clima, ormai è chiaro, da resa dei conti tra due fazioni opposte.

Tuttavia, questa sentenza si concentra su un particolare: il titolare del blog scrisse addirittura un articolo in cui rispondendo alla FIGC sosteneva che dopo il commento diffamatorio era dovuta una risposta. Il che è clamorosamente contraddittorio, perché in quell’articolo si cita proprio la fedina penale di Tavecchio che il commentatore mandò privatamente al titolare. In soldoni, la sentenza non scrive da nessuna parte, nero su bianco, che c’è un omesso controllo. Dice invece, rispettando la legge italiana, che il gestore del blog mantiene la libertà dall’obbligo di controllare tutto ciò che viene pubblicato, ma una volta che si dimostra che è a conoscenza di un contenuto, quindi anche del suo potenziale diffamatorio, se si mantiene online quel commento si sta in pratica concorrendo allo stesso reato, anche quando commesso da chi si firma con nome e cognome.

No, non è una sentenza che nero su bianco riscrive le regole e sostiene la mostruosa e pericolosa equiparazione siti-testate giornalistiche – in fondo, la versione 1.0 della proposta del ministro Andrea Orlando a proposito di Facebook: sarebbe la porta d’ingresso perfetta per imporre dei filtri preventivi tramite l’autocensura. Fortunatamente non lo è. Però è un segno sul quale tenere l’attenzione. Sposta di un poco la sensibilità giuridica sul tema. Meglio non abbassare la guardia.

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