ACTA: storia, retroscena e conseguenze

Tutto quel che bisogna sapere sull'ACTA: l'origine, la storia, il ruolo dell'Italia, le possibili ricadute sulla Rete, i rischi e le opportunità.
Tutto quel che bisogna sapere sull'ACTA: l'origine, la storia, il ruolo dell'Italia, le possibili ricadute sulla Rete, i rischi e le opportunità.

Per brevità in certi casi, per superficialità in altri, la si chiama ACTA. Ma dietro la sigla si nasconde qualcosa di profondo ed importante, che può incidere pesantemente sulla vita di ognuno di noi. Qui, ora: online. Il significato è infatti quello di “Anti Counterfeiting Trade Agreement“, un documento che è il frutto di anni di trattative, lunghe sedute tenutesi con emissari a livello internazionale ed una miriade di problemi di varia natura. Un trattato commerciale, almeno in apparenza: un documento con profonde ripercussioni, in realtà, che negli anni a venire penetrerà nelle legislazioni di tutto il mondo creando un linguaggio unico nel mondo della proprietà intellettuale e della lotta alla pirateria.

Il rischio oggigiorno è che l’ACTA diventi qualcosa di diverso dal semplice documento “Anti Counterfeiting Trade Agreement”. Il rischio è che diventi un simbolo alienato dal suo vero contenuto, un ricettacolo di polemiche, un capro espiatorio tale per cui la sigla nasconda quel che si cela realmente all’interno del documento. Nascondendone così virtù e pericoli. Il quadro più pericoloso della situazione è quello in cui sull’ACTA vengano a collidere due diverse mentalità, fomentate alla base da lobby differenti, spostando sui principi una guerra che è anzitutto di mercato. Ma che sul piano dei principi darà origine a tensioni sociali che già si stanno facendo evidenti in molte parti del mondo.

Attorno all’ACTA, è ormai chiaro, si giocheranno partite di enorme importanza, equilibri internazionali sui quali nessuno intende mollare la presa. E tutto ciò avrà ripercussioni che a livello europeo già stanno riverberando la propria eco: in Polonia così come in Cecoslovacchia, e presto anche in Italia, il movimento anti-ACTA segue quello anti-SOPA, il simbolo del “bavaglio” torna a farsi sentire ed in tutto ciò informazione e disinformazione vanno a braccetto creando un putiferio di passaparola non sempre chiari, non sempre limpidi, non sempre utili. Con queste pagine cercheremo di fare il punto sulla situazione a seguito di una indagine approfondita che abbiamo svolto sulla base di documenti e testimonianze. Non si intende far passare una posizione piuttosto di un’altra (un equilibrio precario e fragile, ma necessariamente da perseguire), ma soltanto spiegare quali siano le ragioni dell’una e dell’altra parte.

Quel che si intende fare è proporre i fatti, così che si possa partire da un punto fermo: cosa è l’ACTA? Ne parleremo sotto vari punti di vista, così che sia chiaro e comprensibile quel che andrà a succedere, quel che è già successo ed il perché di cotanta tensione attorno all’argomento: la storia e le origini, la presunta segretezza del documento ed il ruolo italiano. Ma soprattutto va approfondito tutto quel che è l’ambito online, le ricadute sulla Rete ed il compromesso relativo ad altri diritti oltre al solo copyright.

Cosa è l’ACTA?

L’Anti Counterfeiting Trade Agreement nasce da una necessità: rimodulare ed aggiornare gli accordi internazionali che fin dal 1994 regolano i rapporti e gli scambi commerciali tra gli stati. Prima dell’ACTA v’era il cosiddetto TRIPS, qualcosa che fin dal 2000 i paesi più evoluti (nessuno escluso) hanno tentato di rivedere in virtù dell’enorme cambiamento avvenuto tanto in quanto a contraffazione, quanto ancora in termini di economia del digitale. La svolta è avvenuta nel 2006, quando Stati Uniti (il maggior sponsor dell’accordo) e Giappone (il paese depositario dell’accordo) hanno promosso una nuova iniziativa convocando tutti i paesi potenzialmente interessati. Ma è questa una convocazione che avviene al di fuori di WTO (World Trade Organization) WIPO (World Intellectual Property Organization) per ovvi motivi: gran parte dei paesi interni a questo tipo di organizzazione, infatti, fanno della “pirateria” un punto saldo della loro economia. Soprattutto i paesi in via di sviluppo, nei quali la proprietà intellettuale è debole, ma nei quali le potenzialità produttive sono enormi, non accettano alcun nuovo compromesso: non v’è alcun interesse specifico a ridefinire gli accordi del ’94. L’obiettivo dichiarato è quello di giungere ad una definizione di regole comuni che consentano di fare un passo avanti, togliendo la Rete da uno stato di pericolosa deregulation che consente al più forte di avere la meglio. Obiettivo condiviso e condivisibile, ma allo stesso tempo un obiettivo facilmente strumentalizzabile. Inizia a questo punto la trattativa vera e propria, quella che dovrebbe portare nelle finalità espresse ad un documento che metta tutti d’accordo su di un comune framework internazionale relativo alle normative contro la contraffazione ed in difesa della proprietà intellettuale. La Commissione Europea viene immediatamente coinvolta, prendendo peraltro in mano la situazione considerando il tema come una competenza esclusiva. La levata di scudi immediata porterà comunque al coinvolgimento degli stati membri, i quali vengono così informati della trattativa. E possono accedere alle bozze. Nasce in questa fase il mito della “segretezza” dell’ACTA. Una segretezza per certi versi effettiva, che va però approfondita. Poiché motivata.

ACTA: un documento segreto?

Sì, l’ACTA è un stato per lungo tempo un documento segreto ed inaccessibile, ma soltanto parzialmente e soltanto sulla base di regole e consuetudini ampiamente consolidate. Trattasi infatti di una trattativa commerciale e come ogni altra trattativa di questo tipo deve giocoforza rimanere nell’ombra per non tirare in ballo interessi e finalità troppo forti per poter consentire un normale sviluppo dei lavori. L’ACTA rimane pertanto un documento segreto agli occhi della società, ma non è invece segreto agli occhi degli stati sovrani. Tutti gli stati membri dell’Unione Europea, infatti, sarebbero da anni a conoscenza della trattativa e dei suoi contenuti, con la possibilità di partecipare ad ogni singola sessione dibattimentale pur con il dovere di mantenere sotto stretto riserbo i contenuti degli incontri. Ogni stato sapeva, quindi, ed ha taciuto per dovere istituzionale nei confronti di una trattativa che, al pari di ogni altra trattativa, meritava le dovute cautele. Ma non per sempre. Quando è stato chiaro a tutti il fatto che l’ACTA stava superando i confini canonici della trattativa commerciale, lo strappo alla regola si è resa necessaria. Entra in ballo in questa fase il ruolo dell’Italia la quale, assieme a Gran Bretagna e Svezia (e solo in seguito alla Germania) si è messa di traverso rispetto alla Commissione Europea: mentre l’UE intendeva continuare a mantenere segregati i documenti, il polo capitanato dal nostro paese ha preteso la divulgazione dei documenti affinché le parti sociali interessate potessero prenderne visione. Da questo momento in poi la segretezza è venuta definitivamente meno: per tre volte nel giro di pochi mesi la bozza dell’ACTA è stata rimodulata e ripubblicata (pur cancellando le posizioni nazionali stralciando l’autore dalle singole proposte), continuando in segreto la trattativa, ma aggiornando tempestivamente i cittadini interessati circa l’andamento della questione. Una segretezza ammessa e necessaria, insomma. Una segretezza che gli Stati Uniti portavano avanti con forza, ma che l’UE ha abbandonato nel momento in cui parte dei paesi membri ha voluto far chiarezza su di una questione che solo nella trasparenza avrebbe potuto svilupparsi al meglio. La polemica, però, era a questo punto ormai innescata e gli strascichi sono avvertibili ancora oggi: la segretezza dell’ACTA sarebbe oggi, quindi, almeno in parte, un “falso mito” che continua a riverberarsi nelle polemiche sul documento. E che difficilmente verrà abbandonato. Ma capire la natura di tale segretezza aiuta a capire come e perché il percorso dell’ACTA sia stato di questo tipo.

ACTA: la storia

I negoziati per l’ACTA sono iniziati (non senza difficoltà e dopo un primo rinvio di poche settimane) nel mese di luglio del 2008. Dopo due anni di tira e molla celato al pubblico, la pubblicazione della prima bozza dell’ACTA avviene nell’aprile del 2010: una volta pubblicato, ogni singolo stato membro coinvolge le entità interessate nel mondo industriale per sentire vari pareri e per capire come meglio difendere il mercato locale in sede di trattativa. In Italia FIMI, Confindustria ed altri nomi vengono tirati in ballo (più difficile e controversa è l’identificazione di vere e riconosciute rappresentanze della cittadinanza) e si va a modulare quella che è la posizione del paese nei confronti del documento. Ma a questo è qualcosa da approfondire a parte, poiché l’Italia ha un ruolo del tutto peculiare nel percorso dell’ACTA. Nel mese di settembre del 2011 si arriva alla prima ratifica: parte dei paesi partecipanti alla trattativa siglano l’accordo senza obiezioni di sorta. Non tutti, però, e tra questi anche l’Italia, la quale ferma le procedure e chiede alcune revisioni. L’accordo con il nostro paese avviene pochi mesi più tardi e dà il via libera alla firma. Nel mese di gennaio, a Tokyo, l’ACTA viene firmata per una prima ratifica internazionale estesa. La fine di un percorso? No, anzi: è questo soltanto l’inizio. Affinché l’accordo possa essere realmente fattivo, infatti, occorrerà passare tutta una serie di procedure ulteriori: la firma di UE e stati membri, infatti, sposta semplicemente sui singoli piani nazionali la discussione ed ognuno avrà il dovere di firmare il documento dopo aver sentito gli organi parlamentari. Qui l’ACTA rischia di insabbiarsi: i tempi parlamentari, come noto, sono lunghi e spesso deviati da quelle che sono le esigenze elettorali nei singoli paesi. In Italia ad esempio si potrebbe ipotizzare una prima calendarizzazione entro l’autunno, ma se è vero che nel 2013 si andrà ad elezioni per la successione del Governo Monti, non è possibile ipotizzare una ratifica definitiva dell’ACTA prima di una nuova elezione, di un nuovo Parlamento e di una nuova discussione sul tema. Questione di anni, probabilmente, anche se la cosa non impedisce nel frattempo un orientamento legislativo che vada già incontro alle disposizioni che il documento prevede. A partire dal regolamentosulla tutela del diritto d’autore che l’AGCOM si appresta a discutere nelle prossime ore dopo la prima bozza presentata a metà 2011.

Il ruolo dell’Italia

Il ruolo dell’Italia nei confronti dell’ACTA è stato, questo sembra essere acclarato, estremamente attivo. Un approccio costruttivo da una parte, una seria resistenza dall’altra, il tutto accompagnato da una strenua ricerca della trasparenza. L’Italia è stata coinvolta fin da subito nelle discussioni sull’ACTA e fin dall’inizio ha manifestato particolari resistenze. Trattasi però di aspetti che poco hanno a che vedere con lo specifico della realtà digitale. L’Italia, infatti, ha specifiche peculiarità economiche e necessita di particolari tutele soprattutto per quel che riguarda la produzione in ambito agricolo ed alimentare. Se da una parte l’ACTA tutela con forza i marchi, dall’altra sembra dimostrare minore interesse per DOP e IG, ossia tutte quelle realtà geografiche che rendono ricco e qualitativo il quadro dell’offerta italiana. Il veto dell’Italia sulla ratifica dell’ACTA sarebbe avvenuto su questo punto: se sui bit ci poteva essere sostanziale accordo, tanto per essere chiari, la stessa cosa non valeva per formaggi e vini. Soltanto dopo le necessarie rassicurazioni ottenute soprattutto in sede europea (510/2006 condita con un obbligo d’ufficio al fermo dei prodotti che abusano di denominazioni DOP/IG), gli emissari del nostro paese avrebbero sciolto le riserve ed apposto le firme necessarie al documento di Tokyo. In Italia le trattative sull’ACTA sono state dirette dal Ministero degli Esteri con il coinvolgimento di tutte le amministrazioni, con un forte impegno collaborativo che ha portato la nostra rappresentanza ad essere tra le più attive in assoluto. Ma è stato un impegno non scevro di frizioni. Fin dal 2008, quando le trattative stavano per prendere il via ufficiale, l’Italia era nella lista nera dei paesi meno collaborativi: un cablogramma emerso in seno all’affair Wikileaks, ad esempio, vedeva il nostro paese bocciato poiché «Guardando a ciò che l’Italia propone, un’altra commissione, è chiaro che l’Italia è ancora distante dall’intraprendere gli sforzi necessari»). In seguito è ancora l’Italia a chiedere trasparenza, capitanando una cordata completata da Regno Unito e Svezia per chiedere alla Commissione Europea di rendere pubblici e trasparenti i documenti ACTA allo stadio in cui si trovavano via via a seguito delle trattative concluse. Sarà ancora l’Italia in seguito a posticipare la ratifica dell’accordo, «Ciò al fine di assicurare alle nostre denominazioni d’origine ed indicazioni geografiche la stessa protezione garantita ai prodotti tutelati da marchi, e contrastare in modo più efficace il noto fenomeno dei prodotti “Italian Sounding”, che penalizza le nostre esportazioni nel settore agroalimentare».

ACTA: così in Europa

L’Europa ha partecipato fin dall’inizio alle trattative, ma non in modo compatto. Taluni paesi, infatti, nel tempo avrebbero visto sfilacciarsi il proprio interesse sull’ACTA e non ne avrebbero pertanto seguita l’evoluzione. Da quanto abbiamo appreso, proprio i paesi che oggi si stanno defilando sarebbero quelli meno partecipativi in passato, prendendo pertanto posizioni in certi casi non del tutto lineari con la condotta seguita fino ad oggi. Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Singapore e Marocco sono i primi paesi ad aver sancito la propria partecipazione al processo fin dal mese di ottobre. Nel mese di gennaio l’Italia si è unita al gruppo assieme ad altri 21 paesi europei, ma l’UE non si è ancora mossa in blocco per motivi vari. La Germania, ad esempio, avrebbe rinviato la ratifica per un semplice motivo procedurale: entro 15 giorni dovrebbe arrivare la firma. I Paesi Bassi sono rimasti in stand-by per un problema interno, mentre Cipro ha visto l’assenza di un esponente per mettere la firma nero su bianco. Polonia e Cecoslovacchia, dopo aver latitato a lungo durante le trattative, si starebbero ora defilando, ma da più parti la mossa è vista come una semplice debolezza politica: l’ACTA è in tal caso utile strumento di protesta e sull’ACTA i governi locali potrebbero quindi mollare la presa per ammorbidire lo scontro sociale. Slovenia ed Estonia non hanno firmato e rimangono in una situazione di attesa, ma anche in questo caso per lungo tempo avrebbero ignorato i tavoli della trattativa prima di arrivare all’impasse odierna. Ed il passo indietro di Kader Arif, relatore dell’ACTA presso il Parlamento Europeo sembra essere letto in modo duplice in base soprattutto a preconcette posizioni di partenza: nelle sue parole c’è chi legge scontento e chi opportunismo. C’è chi legge un allarme argomentato e chi l’eco infido di una difficile campagna elettorale alle porte. Chi coraggio e chi strumentalizzazione.

ACTA: l’impatto sulla Rete

L’ACTA è oggetto di protesta poiché identificata come un potenziale bavaglio internazionale alle libertà degli utenti. Sebbene di per sé il testo sembri garantire appieno le libertà attuali, l’idea che fomenta le sommosse che si stanno accendendo ovunque (anche in Italia) è quella di un documento che formula un nuovo compromesso tra due diritti: il diritto d’autore ed il diritto alla libertà di espressione. L’ACTA è vista all’interno di una dicotomia tra forti pericoli ed importanti opportunità, ma la verità sta probabilmente ancora una volta nel mezzo: il mancato dialogo tra le parti rischia però di trascinare il discorso su piani sbagliati sulla base di vaste incomprensioni. Approfondendo la questione con le diverse parti in causa è questo quel che più ci ha colpiti: l’enorme distanza tra le posizioni, l’apparente inconciliabilità dei diversi approcci. Lo scontro sarà consumato per forza di cose, poiché in ballo vi sono due modi opposti di guardare alla medesima problematica. Se l’utenza vede soprattutto un taglio interpretativo basato sul rapporto tra legge e popolo, le parti coinvolte nella trattativa vedono la questione soprattutto da un’altra angolazione: lo scontro tra due lobby, un verminaio di interessi, una deregulation non più sostenibile a cui la politica deve riuscire a dare le dritte necessarie per evitare di lasciare il bastone del diritto nelle mani del mercato. La lobby del copyright è cosa assodata, riconosciuta e storicamente “nemica” di un certo modo di pensare la Rete: grandi interessi in mano a pochi attori ben determinati a difendere i propri bilanci, mettendo avanti il braccio armato della RIAA in una guerra senza confine che negli anni passati portò a migliaia di denunce nei confronti del mondo del file sharing. Un’altra lobby, invece, è quella che raccoglie tutti coloro i quali costruiscono sulla Rete il proprio mercato, fungendo da mero tramite per i più disparati servizi, ma che sulla pirateria spesso possono costruire imperi di enorme portata. Le due lobby si guardano negli occhi contestandosi reciprocamente le rispettive forzature: alla lobby del copyright è contestato l’approccio arcaico alla proprietà intellettuale, la mancata apertura alle nuove realtà e la carente “visione” prospettica di quel che l’innovazione sta portando sul mercato; alla lobby dei service provider è contestato l’agire non sul diritto ma sul cavillo, difendendo così indifendibili meccanismi pirata in virtù di una difesa ad oltranza di una libertà di espressione che in realtà nessuno vuole realmente intaccare. Detto più chiaramente: le major della produzione cinematografica e musicale da una parte, motori di ricerca e social network dall’altra. L’incontro tra le parti è di per sé difficile, lo scontro è invece di per sé inevitabile. In mezzo si posiziona l’ACTA, un tentativo di dirimere questioni di vecchia data che giorno dopo giorno si fanno sempre più impellenti proporzionalmente al valore di mercato di cui si fanno carico. I Service Provider rappresentano un polo fondamentale in questo quadro poiché direttamente tirati in ballo dal documento. Con la ratifica dell’ACTA, infatti, si va verso una maggior responsabilizzazione di questi ultimi, verso una caduta della neutralità che li ha contraddistinti e tutelati. Il che potrebbe essere un terremoto, poiché cedere sul copyright significa probabilmente cedere su molti altri aspetti, perdendo gran parte della propria autonomia e della propria indipendenza protetta nell’aura di una dimensione sovranazionale al di sopra dei limiti di confini e legislazioni. Se Google dovrà farsi carico di maggiori responsabilità circa i contenuti di YouTube, avrà minor libertà nello sviluppare la propria repository. E l’0utenza minor libertà d’espressione (che andrebbe a scontrarsi contro altri diritti che verrebbero ad avere la meglio). Wikipedia, Yahoo, Facebook, Twitter: tutti saranno coinvolti in un modo molto differente di pensare alla Rete, ma ogni realtà nazionale potrà disporre di normative proprie di applicazione del trattato internazionale, rendendo così molto differenziato il quadro da paese a paese. Se Blogger è stato avviato verso un sistema di censura nazionale non è forse un caso, insomma, e se Twitter ha dato maggior disponibilitàalle decisioni “politiche” locali significa che qualcosa si sta già muovendo. La politica si sta riprendendo parte del potere che il mercato era riuscito a far proprio negli anni passati ed in questo l’ACTA sembra ricoprire un ruolo di primo piano.

Ipse Dixit: padre Antonio Spadaro

Il commento di padre Antonio Spadaro a proposito della SOPA

Un aspetto ulteriore da sottolineare è il fattore tecnico relativo alle tempistiche (e quindi alle modalità) di intervento in caso di acclarata violazione. Recita l’art.27:

Le parti assicurano che la propria normativa preveda le procedure di esecuzione di cui alle sezioni 2 (Esecuzione in ambito civile) e 4 (Esecuzione in ambito penale) in modo da consentire un’azione efficace contro la violazione dei diritti di proprietà intellettuale nell’ambiente digitale, ivi compresi rimedi rapidi per impedire violazioni e strumenti che costituiscano un deterrente contro ulteriori violazioni

La rapidità dell’azione spesso fa a pugni con la lentezza (organica, logica o cronica che sia) dell’azione della magistratura. Imporre rapidità di intervento potrebbe incoraggiare un’attuazione dell’ACTA formulata in modo da aggirare la giurisprudenza con modalità più o meno dirette, più o meno forzate, più o meno proporzionate? La rapidità potrebbe essere una cattiva consigliera. E potrebbe essere un tarlo pericoloso nel modo in cui l’ACTA viene accolta ed adottata nei vari paesi aderenti. La Commissione Europea, nella persona di Neelie Kroes, si è prodigata a sottolineare come l’ACTA non preveda adeguamenti normativi, non limiti le libertà attuali degli utenti e non esponga i cittadini a pericoli di qualsivoglia natura. Al tempo stesso quel che non è stato detto è il fatto che i paesi membri abbiano facoltà di cambiare le proprie prospettive, intervenendo con finalità precise ed indicate nel documento. Così come espresso direttamente dal documento ACTA, ancora una volta sull’articolo 27:

Le parti possono disporre, conformemente alle proprie normative e regolamentazioni, che le proprie autorità competenti abbiano la facoltà di ordinare a un fornitore di servizi on-line di comunicare rapidamente a un titolare di diritti informazioni sufficienti per identificare un utente il cui conto sarebbe stato utilizzato per una presunta violazione, purché tale titolare di diritti abbia già presentato una denuncia, sufficiente a livello giuridico, di violazione di un marchio, di diritti d’autore o di diritti simili e tali informazioni siano ricercate ai fini della tutela o dell’applicazione di tali diritti. Tali procedere sono applicate in modo da evitare la creazione di ostacoli alle attività legittime, incluso il commercio elettronico, pur tutelando, conformemente alla normativa delle parti, la concorrenza legittima e i principi fondamentali quali libertà di espressione, equo trattamento e privacy

Trattasi di un passaggio fondamentale. In questo articolo, infatti, da una parte l’ACTA gira ad ogni singolo paese la responsabilità dell’identificazione degli strumenti necessari per intervenire sui casi specifici (pur senza imporre obbligo alcuno), mentre dall’altra chiede che tali strumenti non siano d’ostruzione invece alle attività legittime. In mezzo vi sta sempre e comunque il passaggio giuridico (o comunque una procedura accreditata nella fattispecie come equipollente, il che sembra poter rappresentare in Italia una malcelata apertura ad una maggior responsabilizzazione dell’AGCOM) che certifica il possesso di un diritto e chiede la relativa soppressione coatta della violazione. L’ACTA vuole che i paesi aderenti possano mettere in ballo strumenti per poter chiudere un sito, colpire un contravventore, interrompere la raccolta fondi di attività online illegali. Strumenti per agire, colpire, portare a casa il risultato. La cosa però significa impedire tanto ad un Anonyupload quanto ad un Wikileaks di raccogliere denaro della propria community e lo scontro sui principi  torna pertanto a farsi protagonista della contesa: chi ha il diritto e l’ardore di sancire il distinguo tra giusto e sbagliato, tra lecito e illecito, tra opportuno e inopportuno? L’ACTA apre un ventaglio di possibilità, insomma, ma spetta ai singoli stati portare il principio in applicazione. SOPA, PIPA, FAVA, Hadopi ed altri provvedimenti similari vanno pertanto visti in quest’ottica. Ed anche il caso Megauploadsembra essere fin da oggi una anticipazione di quel che accadrà.

ACTA, SOPA, FAVA, Hadopi e Megaupload

Come indicato, l’ACTA agisce come un framework internazionale a cui le singole legislazioni debbono raccordarsi. L’ACTA non dispone provvedimenti specifici, ma prepara il terreno spiegando quali siano le finalità da perseguire. Possono quindi SOPA, PIPA, FAVA o Hadopi essere richiamate all’ACTA come impegni precisi in questa direzione? O può, al tempo stesso, la bozza AGCOM sulla proprietà intellettuale essere letta anche in questa direzione? Si, a quanto pare è possibile. L’ACTA è la madre dei vari provvedimenti in preparazione, ma non necessariamente la cosa assume di per sé accezione negativa. Per scovare i pericoli occorre andare oltre. SOPA e PIPA stanno cercando una loro strada negli Stati Uniti, pur tra mille difficoltà. La FAVA ha avuto vita breve, ma il filone era dichiaratamente il medesimo. L’Hadopi è stata antesignana di un certo tipo di approccio, ma ha avuto non pochi ostacoli sul suo percorso. Per tutte la radice sembra essere la medesima, ma ognuna ha dettagli e approccio a sé. Ognuna potrebbe essere modulata in modo differente. Non necessariamente il “diavolo” è nell’ACTA, ma i dettagli previsti a livello nazionale possono fare la differenza. Così sarà con le future decisioni AGCOM, destinate ad essere fin da subito sotto la lente d’ingrandimento, ma fin da ora identificabili simbolicamente come il ramo italiano della famiglia ACTA. Perché l’ACTA non è ancora fattivamente adottata, ma è comunque nell’aria. E un altro aspetto sembra confermarlo: il caso Megaupload. Chi ha seguito le vicissitudini di Kim Dotcom avrà notato come per la prima volta il chiodo a cui l’intervento delle autorità è stato appeso è quello dell’intenzionalità dell’atto pirata. Megaupload, insomma, non è stato fermato di per sé per il materiale pirata depositato sui server (gli autori avrebbero infatti potuto professare la propria estraneità al caricamento degli stessi, nascondendo l’elefante della pirateria dietro il topolino dei file legali ospitati), ma all’indice è stato invece messo il meccanismo di stimolo con cui il servizio incoraggiava gli utenti all’azione illegale. Il tutto sembra rispondere fedelmente ad un aspetto specifico indicato nel documento ACTA:

Per tutelare le informazioni elettroniche sul regime di diritti le parti dispongono una tutela giuridica adeguata e rimedi giuridici efficaci contro ogni persona che esegue intenzionalmente una qualsiasi delle azioni seguenti, senza averne il diritto ed essendo consapevole oppure, per quanto riguarda i rimedi giuridici civili, avendo ragionevoli motivi per essere consapevole che tali azioni avrebbero indotto, consentito, facilitato o celato una violazione di diritti d’autore o di diritti simili

Si parla insomma per la prima volta di “induzione alla pirateria“, non solo di pirateria in sé. Il che significa un importante passo avanti che USA e Nuova Zelanda sembrano aver messo in pratica con estrema solerzia ed efficacia. Megaupload è caduto vittima dell’art. 27? Forse si. La cosa appare credibile.

Conclusione

La si chiami ACTA, ma si pensi alla complessità dell’Anti Counterfeiting Trade Agreement senza guardare al tutto in modo superficiale. Nel momento in cui il percorso verso la ratifica ufficiale prende piede, infatti, occorre guardare ai fatti con estremo equilibrio, scegliendo le battaglie di principio più opportune, ma senza cedere a superficiali generalizzazioni. L’ACTA è una opportunità? Si, lo è. Può essere una opportunità perché, se ben plasmata, può consentire davvero una lotta equa alla pirateria se tutti i diritti saranno correttamente bilanciati. Solo in presenza di piene garanzie per l’utenza, però, sarà possibile guardare alla pirateria ed ai danni che può comminare, perché altrimenti la guerra di principio tra lobby del copyright e lobby dei service provider non potrà mai avere fine. E gli utenti rischiano di rimanerne schiacciati, tirati strumentalmente per la giacchetta da ambo le parti. L’ACTA è un pericolo? Si, lo è. Può essere un pericolo perché è uno strumento in mano a stati sovrani che non sempre hanno l’equilibrio, la competenza e l’approccio giusto per scaturirne con azioni legislative proporzionate, mirate ed opportune. Considerare l’ACTA come il male assoluto potrebbe però essere fuorviante, poiché si rinuncerebbe a tutto ciò che si sta cercando di fare contro la contraffazione, per la difesa della qualità sui mercati e per rivedere accordi che erano già in essere prima che la rivoluzione digitale si scagliasse sulla realtà internazionale. In assenza di regole precise, chiare e ben definite, nessuno potrà avere certezze. Se gli accordi internazionali non definiscono bene il settore, né il cloud computing né le offerte musicali internazionali potranno essere pienamente soddisfacenti e garanti delle libertà dei singoli. Vigilare sull’ACTA è al tempo stesso un dovere, così come era un diritto poter accedere al documento quando finalmente è stato portato sotto gli occhi di tutti. La traduzione italiana dell’ACTA a disposizione (pdf). In queste pagine abbiamo tentato un excursus chiaro, non necessariamente esaustivo, neutrale e parziale: la ratifica italiana del documento apre ora ad un lungo percorso interno destinato a svilupparsi in una molteplicità di rivoli. L’importante è far propria la piena consapevolezza di un principio di base: l’ACTA è stata firmata, l’ACTA è nell’aria, l’ACTA sarà ratificata. Sta però a noi curarne la traduzione concreta nella giurisdizione italiana. La battaglia è ancora lunga e converrà a tutti deporre le armi per discuterne con la massima serenità possibile.

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