La nuova ossessione dei politici: i gruppi chiusi

Il nuovo fronte della battaglia politica è sui gruppi chiusi: troppo odio, dice la Boldrini, e Facebook risponde; ma cosa si può fare senza spiare tutti?
Il nuovo fronte della battaglia politica è sui gruppi chiusi: troppo odio, dice la Boldrini, e Facebook risponde; ma cosa si può fare senza spiare tutti?

Su Facebook ci sono tre tipologie di Gruppi: quelli aperti, quelli chiusi e quelli segreti. Sul secondo e terzo tipo, con una privacy più stretta, si sta concentrando l’attenzione di coloro che cercano ad ogni costo una soluzione all’hate speech. Ovviamente in barba a ogni ragionamento complesso. I gruppi chiusi sono il nuovo problema, e chi poteva in Italia intestarsi subito questa “battaglia di civiltà”? Ovviamente Laura Boldrini.

La lettera di Laura Boldrini pubblicata su Repubblica sposta il discorso varato col suo appello online contro le bufale verso il tema che appassiona, in sostanza, due persone: la presidente della Camera e la giornalista Selvaggia Lucarelli. Pare che a queste due persone i gruppi chiusi non vadano giù, con le loro, in taluni casi, «violente sconcezze» (per dirla con la presidente). Le citazioni sono le solite: la denuncia di Arianna Drago, la ragazza che ha scoperto il gruppo di maschilisti che rubavano foto pubbliche di donne per commentare al più basso livello di istinti immaginabile; la ragazza napoletana che si è tolta la vita e poi genericamente i discorsi d’odio. Secondo questa visione, è intollerabile che alcune persone pensino e scrivano queste cose. Anche se in un ambiente chiuso, come potrebbero fare a casa loro.

Abbiamo già troppe volte detto la nostra sui punti deboli, debolissimi, del ragionamento formalmente di “buon senso” della Boldrini che in realtà non riesce a cogliere tutti gli aspetti tecnici e le implicazioni politiche e sociali delle soluzioni semplici. Se è accettabile l’obiettivo concreto di avere una sede operativa del social per ogni paese, perché pare aumentare la reattività del social alla rimozione dei contenuti che violano gli standard, restano sul tappeto l’impossibilità di ritenere Facebook responsabile e soprattutto la stupefacente libertà di una presidente della Camera di fare proposte, interrogare, costruire opinione su un tema così potente e trasversale senza incontrare ostacoli culturali. Più o meno ignorata, ma non per questo ininfluente. L’ideologia della Boldrini va limitata e superata, però a questo punto meglio soprassedere e cercare di capire, partendo dalle differenze fra le tre tipologie di gruppi cosa si potrebbe fare senza accontentarsi di scrivere letterine sui Grandi Temi e neppure spiare l’intera popolazione mondiale.

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L’exploit dei gruppi chiusi

Della crescita esponenziale dei gruppi chiusi, in particolare quelli segreti, si parla da circa un anno. Menlo Park non fornisce statistiche su questa particolare modalità di incontro, ma è trapelato che ormai quasi un miliardo di utenti fanno parte di almeno un gruppo a privacy ristretta. Alcuni considerano il fenomeno collegato al bisogno di restare fra persone più vicine alle proprie opinioni e lontane dalle polemiche; altri pensano che c’entri l’innalzamento dell’età media. Esistono due tipi di gruppi chiusi: il gruppo chiuso di default è composto da persone che hanno interessi comuni, i post non sono visibili pubblicamente, tuttavia ricercabili sul sito. A questi gruppi si può chiedere di essere invitati. Al gruppo segreto invece si può accedere soltanto per invito di un suo membro e non è visualizzabile in alcun modo, da nessuna ricerca sul sito. I suoi contenuti sono “segreti” e scambiati da persone che si conoscono. Anche se questo termine, segreto, andrebbe usato con moderazione visto che si tratta di un ambiente non crittografato e facilmente penetrabile da qualcuno che si facesse invitare e poi ripubblicasse quegli stessi contenuti altrove.

gruppi FB

I gruppi chiusi rappresentano una fuga dalla contaminazione pubblica e sono molto utilizzati in paesi dove si avverte, per le più diverse ragioni, un allarme sul libero pensiero. Negli Stati Uniti è diventato famoso il gruppo di sostegno a Hillary Clinton, Pantsuit Nation, e sempre questa community, arrivata all’incredibile numero di 3,9 milioni di persone, ha organizzato la marcia delle donne contro il presidente Trump. È stato osservato come in Pakistan i gruppi segreti stiano cambiando le relazioni tra le donne più giovani, consentendo loro una libertà di pensiero e di condivisione altrimenti impossibile. Il classico paradosso del dual use: con il coltello si può ammazzare una persona o affettarsi un pomodoro; coi gruppi chiusi puoi insultare le donne, ma da qualche altre parte sono le donne stesse a usarli per aiutarsi, resistere, crescere come movimento.

Il bug delle segnalazioni

Facebook ha un sistema di segnalazioni basato su un concetto inappuntabile: è impossibile conoscere in anticipo né in tempo reale la creazione di un contenuto che violi gli standard, solo la comunità stessa può farlo. Nel tempo l’azienda ha raffinato gli strumenti e si è detta pronta più volte ad affiancarvi un debunking di terze parti contro le fake news, senza però cancellare nulla, preferendo ucciderle togliendo loro soldi e visibilità manovrando il news feed. Il principio è comunque immutato da più di un decennio: gli utenti segnalano altri utenti e Facebook verifica, coi limiti noti ma con la garanzia di salvaguardare il più possibile la libertà di espressione. Il motivo di tanta prudenza? Che ogni volta che si spinge sugli automatismi si produce qualche danno collaterale: un esempio recente è la cancellazione della famosa foto della bambina vietnamita. Gli algoritmi non sono “intelligenti”, anzi, sono soltanto dei cretini velocissimi in attesa di istruzioni, che non possono scendere oltre un certo livello di dettaglio.

Se considerato dal punto di vista dei gruppi chiusi, questo sistema di segnalazione ha un piccolo bug: quanti mai segnalerebbero un contenuto censurabile dentro un gruppo a cui si è aderito? Pochi. L’adesione ideologica di un gruppo chiuso ne fa una sorta di echo chamber istituzionalizzata dentro il sito. Perciò teoricamente soltanto coloro che non fanno parte del gruppo segnaleranno l’hate speech, ma allora non sarebbero più chiusi e si torna punto a capo. In pratica i gruppi chiusi e quelli segreti in particolare devono prima essere violati perché qualcuno dimostri che le persone che lo frequentano violano a loro volta gli standard della comunità. Sono a tutti gli effetti delle zone franche. Questo però non significa che sia sbagliato, prima bisogna capire quali sarebbero le conseguenze delle proposte à la Boldrini.

Semantica oppure ancora l’essere umano

Tecnologicamente, ci sono due strade per intervenire. Semantica o fattore umano.

  • Uno spider semantico. Facebook dovrebbe lanciare in tutti i gruppi chiusi un software per riconoscere contenuti sospetti e poi controllare con gli esperti, umani, quelli con esito positivo, anche per stralciare i molti falsi positivi che sicuramente ci sarebbero. Si tratta dell’equivalente delle tecniche chieste dalle intelligence su Gmail, i servizi cloud di Microsoft, alle quali le aziende hanno risposto con un netto rifiuto e cause legali. Questa concessione, infatti, è spaventosamente pericolosa e distrugge ogni possibilità di rispettare la privacy. Con la scusa delll’hate speech si aprirebbe una porta di servizio dentro questi gruppi ed essendo un’azienda globale, in Cina e in tanti altri paesi a libertà limitata chiederebbero lo stesso favore. Donne, minoranze, oppositori politici, non potrebbero più utilizzare questi gruppi. Forse il danno sarebbe limitato, visto che queste categorie preferiscono le chat, comunque sarebbe un errore madornale.
  • L’alternativa potrebbe essere un sistema a doppia conferma. Qualcuno che noti un gruppo di questo tipo deve avere la certezza di non essere bannato dal social network in caso lo segnali esternamente, anche pubblicando questi contenuti se vuole, oppure richiamando lo staff del sito. Una volta che Facebook rilevi l’effettiva violazione degli standard – meccanismo che deve assolutamente accelerare – il gruppo va chiuso, i contenuti fatti sparire, compresi quelli ripubblicati, i membri devono ricevere una comunicazione privata da parte del social che censuri il loro comportamento, l’identità del social-whistleblower deve restare segreta se l’utente preferisce così.

La risposta di Facebook alla Boldrini

Facebook naturalmente non ha alcuna intenzione di polemizzare nei confronti della missiva della presidente Boldrini spedita a Mark Zuckerberg (ma non si sa bene con quale mandato diplomatico da parte del governo e del Parlamento). La sua risposta ufficiale è sempre la stessa: tutti i contenuti che vengono segnalati vengono rivisti da un team di esperti 24 ore su 24 in tutto il mondo. «Imparando dagli esperti», spiegano, «continuiamo a perfezionare il modo in cui implementiamo le nostre policy per far sì che la nostra community possa essere al sicuro, soprattutto per le persone che sono più vulnerabili o sotto attacco». Per ottenere velocità e precisione si può soltanto continuare a lavorare. Sulle proposte della Boldrini e questa sua ultima lettera, Facebook sottolinea con diplomazia che sussistono già le collaborazioni con le istituzioni e assicura attenzione, quella che la presidente lamenta:

Lavoriamo a stretto contatto con i nostri partner come UNAR e le autorità locali come la Polizia Postale italiana, per continuare a migliorare il nostro modo di lavorare. La collaborazione con le istituzioni, come ad esempio il Ministero dell’Istruzione e il Ministero della Giustizia, è per noi fondamentale nel contrasto al cyberbullismo, fronte sul quale lavoriamo a stretto contatto anche con autorità e associazioni come Telefono Azzurro e Save the Children. Aziende, politici, o società civile non possono ottenere risultati se non attraverso una continua collaborazione. In questo senso, siamo soddisfatti del nostro continuo dialogo con la Presidente Boldrini. Tutte le proposte della Presidente sono per noi meritevoli della massima attenzione e, per questo, non solo prese in considerazione, ma trasmesse ai massimi livelli aziendali.

Che dire sull’ultima rassicurazione: che speriamo di no?

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