L'urlo della Silicon Valley contro Donald Trump

Zuckerberg, Brin, Hastings, Cook, Chesky: la decisione del presidente Usa fa emergere lo sdegno dei colossi della Rete, spesso fondati da immigrati.
Zuckerberg, Brin, Hastings, Cook, Chesky: la decisione del presidente Usa fa emergere lo sdegno dei colossi della Rete, spesso fondati da immigrati.

I nonni di Mark Zuckerberg provengono da Germania e Polonia, i genitori di sua moglie sono rifugiati cinesi e vietnamiti. Sergey Brin è arrivato all’età di sei anni negli Stati Uniti come immigrato insieme ai genitori russi di origini ebraiche. Steve Jobs è stato dato in adozione appena nato a una famiglia californiana ma suo padre era uno studente immigrato siriano. Brian Chesky, Ceo di AirBnB, è figlio di immigrati russi poverissimi che hanno vissuto per anni di sussidi. Senza la tradizionale apertura americana, non tanto burocratica quanto economica, di chance, verso gli immigrati, la Silicon Valley non esisterebbe.

Non c’è forse altro luogo di tutti gli states, insieme alla colta e laica New York, ad aver sofferto maggiormente il divieto di ingresso ad immigrati e rifugiati di sette paesi – compresa la Siria, dilaniata dal conflitto – firmato dal presidente Trump. Il #MuslimBan, che ha riempito di nuovo le piazze delle principali città e stavolta pure gli aeroporti, dove molte persone che avevano già il loro visto per entrare nel Paese sono rimaste nel limbo giudiziario prodotto da un atto della Casa Bianca che alcuni giudici federali hanno già considerato come assolutamente incostituzionale.

Non è però questo il punto, toccherà alla politica e alla legge americane uscirne. Quel che interessa qui è evidenziare come il tema immigrazione ha toccato un’altra volta il nervo scoperto della nuova economia spinta dalle tecnologia: è spesso stata fondata da immigrati di prima o seconda generazione, che non possono digerire certi slogan né stare a guardare mentre si impoverisce quel tipo di importazione di cervelli, di idee, sulla quale si fonda. Per questo non devono stupire appelli e vere e proprie azioni di contrasto di persone che attualmente sono ricche e popolari almeno quanto lo stesso presidente. Se non di più. Ha cominciato Mark Zuckerberg venerdì, con un post diplomatico ma fermo, nel quale fa presente a Trump la promessa di fare qualcosa per i 750 mila figli di immigrati portati negli Usa in tenera età e che mostrano promettenti qualità scolastiche.

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Si è fatto notare Sergey Brin, arrivato all’aeroporto internazionale di San Francisco durante le proteste spiegando di essere là in quanto si sente anch’egli rifugiato.

Red Hastings, fondatore di Netflix, considera le idee di Trump “antiamericane”, pensa ai dipendenti della sua azienda provenienti da tutto il mondo e invita a coordinarsi per difendere i valori americani.

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Brian Chesky sfida apertamente Washington, offrendo ospitalità a rifugiati e agli irregolari in attesa che vengano a sapere che fare, aiutati dagli avvocati che sono arrivati negli aeroporti per aiutarli gratuitamente.

Tim Cook ha fatto sapere quanto ritiene odioso questo divieto, non tanto per la sua legittimità istituzionale (si tratta di una legge che già in passato è stata utilizzata per brevi periodi da altri presidenti, anche democratici), quanto per la frettolosità e la plateale parzialità: Trump ha bloccato temporaneamente tutti i rifugiati, ma anche negato l’ingresso ai cittadini di Iran, Iraq e altri cinque paesi a maggioranza musulmana senza spiegazioni precise e una deadline, una strategia comprensibile.

Anche fra coloro che lavorano a stretto contatto con l’amministrazione Trump si notano critiche. Elon Musk, l’amministratore delegato di Tesla e SpaceX, che siede in uno dei comitati consultivi, ha commentato che il divieto «non è certo il modo migliore per affrontare le sfide del Paese». Musk peraltro è nato in Sud Africa.

E così, se venerdì mattina la Silicon Valley era ancora in gran parte collaborativa col presidente repubblicano, fiduciosi di trovare un discorso comune con la nuova amministrazione, 48 ore dopo, come scrive il NYT, “l’ottimismo ha ceduto alla rabbia e alla determinazione”. Ma di fare cosa? Siamo alle solite: il mantra della globalizzazione, che ha certamente bisogno di una rinfrescata, contro l’agenda nazionalista e protezionista della nuova america. Probabilmente nessuna delle due merita di sopravvivere al giro di boa della metà del 21° secolo e quasi certamente questi sono i vagiti di una “guerra civile” dalla quale nascerà qualcosa di nuovo.

A questo punto sarà interessante osservare e capire come farà la Silicon Valley a collaborare con il nuovo presidente dopo questa esasperazione delle differenze (e diffidenze). Uno scontro dove su entrambe le sponde non mancano il denaro né la forza di alcune convinzioni di principio. Premesse di una battaglia dove potrebbe tacere il fioretto della diplomazia.

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