Lo chiamano "equo compenso"

Tre spunti di riflessione sul decreto per la ridefinizione dell'equo compenso. Uno, l'equo compenso non viene capito, e quindi non accettato; due, i valori previsti sono mal calibrati sulla realtà della tecnologia; tre, la legge nasce vecchia: e il cloud?
Tre spunti di riflessione sul decreto per la ridefinizione dell'equo compenso. Uno, l'equo compenso non viene capito, e quindi non accettato; due, i valori previsti sono mal calibrati sulla realtà della tecnologia; tre, la legge nasce vecchia: e il cloud?

«Il Ministro per i beni culturali Sandro Bondi comunica che, in esecuzione della legge sul diritto d’autore, ha firmato il decreto di rideterminazione del compenso per “Copia privata”, che la legge già prevedeva in via provvisoria». Così il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha dato il via a quello che è un provvedimento destinato a raccogliere una enorme mole di polemiche poiché in grado di danneggiare potenzialmente chiunque. E anche chi dovrebbe teoricamente giovarsene non è detto che avrà di che festeggiare.

Il decreto di rideterminazione del cosiddetto “equo compenso” è l’ultima conseguenza di tutta una serie di incomprensioni ed imprecisioni, qualcosa che sfocia oggi in una nuova realtà francobollata immediatamente come scomoda, pericolosa, inutile e dannosa. Ma nel frattempo il decreto è realtà. Vogliamo proporre tre brevi riflessioni, tre spunti per valutare in modo più approfondito la questione:

  • l’equo compenso non rientra nel modello culturale esistente e questa difformità sfocia nella pirateria;
  • i valori indicati nelle tabelle non sono calibrati sulla natura dei device contemplati;
  • la formulazione della normativa descrive un mondo che sta per essere superato.

Non è un modello culturale

Per capire l'”equo compenso” può essere utile fare affidamento alla Relazione Illustrativa che ha accompagnato il decreto del ministro Bondi: «Ai sensi dell’articolo 71-sexies della legge 22 aprile 1941, n633 – introdotto all’interno della legge sul diritto d’autore n. 68 del 2003, in sede di recepimento della direttiva comunitaria 2001/29/CE – è consentita la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto, effettuata da una persona fisica per uso esclusivamente personale, purché senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali, nel rispetto delle misure tecnologiche di protezione […]. Tale riproduzione non può essere effettuata da terzi». Eccolo, quindi, l’equo compenso: una sorta di onere preventivo con il quale si autorizza un utente a copiare su un proprio dispositivo dotato di memoria una copia privata di un brano musicale regolarmente acquistato.

Quando si acquista un CD, infatti, non si entra in possesso della piena libertà di utilizzo dei contenuti memorizzati, ma si acquista soltanto una licenza di ascolto privata e legata al supporto in possesso. Ogni attività di copia privata, al fine della conservazione del contenuto, non è compresa nella licenza prevista in fase di acquisto. La copia privata si ferma a questo stadio. Ogni “tassa” che regolarizza preventivamente una copia privata non è quindi un placet per le attività pirata, le quali rimangono sempre e comunque illegali. Ma già in questa fase la prima discrasia prende forma: qualsiasi acquirente di musica considera proprio il materiale e desidera farne uso pressoché libero.

Se è culturalmente assodato il fatto che una riproduzione pubblica vada regolarizzata mediante pagamento dei diritti alla SIAE, al tempo stesso la cultura generale considera un diritto la possibilità di effettuare quante copie si desiderano al fine di poter ascoltare la propria musica, regolarmente acquistata, su qualsiasi dispositivo si voglia. Era così ai tempi degli LP, che tutti passavano su cassetta per portarli sull’autoradio, e così è oggi ai tempi degli MP3, delle chiavette e dei lettori portatili. Nel momento in cui un decreto impone una nuova “tassa” per regolarizzare una cosa considerata regolare, quindi, ecco scatenarsi tutta l’antipatia verso un provvedimento che soprattutto i consumatori non potranno che rifiutare a priori. Per interesse, per logica, ma ancor prima per qualcosa di più istintivo: direttamente per un modo di pensare decennale, assodato e precostituito.

Le tabelle e la realtà

Altra questione che il nuovo equo compenso è destinato a scatenare è nel fatto che le tariffe imposte, oltre ad essere decisamente onerose, sembrano anche in vario modo sbilanciate. Il decreto sembra infatti considerare a priori come device di archiviazione strumenti nati invece per tutt’altro motivo. Se si parla di hard disk, infatti, gli usi possono essere molteplici ed una “tassazione” a priori non fa che imporre un obolo ad una categoria che invece lavora per altri scopi.

Ed è questa la tematica principale affrontata da Nokia. Il gruppo ha infatti difeso la propria produzione ricordando che «l’ascolto di musica è solo una delle tante funzioni disponibili sul telefono cellulare, il cui contenuto è solitamente acquistato legalmente dal consumatore che ha pertanto già completamente pagato i diritti d’autore. Imporre una nuova tassa sui telefoni cellulari costringe quindi i consumatori a pagare due volte per lo stesso contenuto. Nokia crede che non sussista un fondamento legale o una base razionale alla tassa sulla copia privata applicata ai telefoni secondo quanto previsto dalla direttiva europea sulla copia privata.

L’ADOC, nel frattempo, ha già fatto due calcoli stimando un aumento del 4% circa dei prezzi dei device interessati, il tutto per un principio, ancora una volta, opinabile: è giusto costringere i produttori hardware ad un sovrapprezzo in virtù del fatto che i loro prodotti potrebbero essere potenzialmente utilizzati in modo potenzialmente lesivo dei diritti d’autore? Il processo alle intenzioni non è mai cosa buona, ma ciò è vero soprattutto se si punta il dito contro una categoria le cui finalità generali sono differenti e dove solo l’uso da parte dell’utente trasforma un bene in un device d’archiviazione invece di uno strumento di utilità.

Più semplicemente: se un utente ha un hard disk da 100GB, buona parte sarà occupata dal sistema operativo, dai software, dalle proprie immagini personali e quindi, eventualmente, da una serie di MP3 propri (inutile parlare di eventuale materiale pirata: non è compreso nella “sanatoria” dell’equo compenso, dunque non rientra nel novero dei calcoli da effettuarsi): tassare un intero hard disk per la possibile eventuale presenza di un piccolo numero di file significa danneggiare i produttori dell’hard disk, i produttori del sistema operativo, i produttori software, l’utente finale. Il tutto per portare denaro al calderone della SIAE. E su questo nome ecco l’insorgere di una nuova difficoltà: il disamore per questo tipo di istituzione è tale da trasformare ancora una volta il Decreto in un pungolo vissuto con avversione difficile da smussare.

Non è un caso, del resto, il fatto che sia proprio la SIAE l’unica a difendere l’equo compenso a spada tratta. Ma la sua posizione è destinata a rimanere pressoché isolata, difesa sì dal Ministero, ma ora in discussione presso il Parlamento (con una procedura che in teoria avrebbe coinvolto tutti gli attori interessati, ma contro cui i primi a scagliarsi sono state le associazioni dei consumatori. Non tutte le parti, insomma, avrebbero goduto di equa rappresentanza ed ora, sia pur se con minori possibilità di dibattito, i detrattori della SIAE avranno modo di far udire il proprio coro di protesta).

La valutazione proposta da Stefano Quintarelli si basa invece su di un assunto tale per cui le aziende potrebbero evitare di alzare i prezzi, assorbendo i minori margini conseguenti operando tagli al personale. L’effetto sarebbe devastante: «Se distributori e retailer recuperassero margini “leviati” per 60M, riducendo il personale (non specializzato, penso a commessi e magazzinieri) sarebbero più di 2.000 persone. Dello stesso ordine di grandezza del numero di persone che, secondo il Corriere della Sera, vivono di diritto d’autore». Comunque la si tiri, insomma, la coperta rimane sempre corta.

L’anacronismo e il cloud

Dulcis in fundo, occorre notare come il Decreto sia stato composto con una certa superficialità di approccio. Non solo non si è considerato il fatto che ogni singolo device ha una sua funzione specifica; non solo non si è valutato l’ammontare complessivo del danno procurato; non solo non si è considerato l’ostacolo culturale dell’imporre una tassazione che la quasi totalità dei cittadini considererà inopportuna ed iniqua. L’errore sembra risiedere anche nella formulazione stessa delle tabelle riportanti i compensi dovuti per le singole categorie merceologiche.

Salta agli occhi, ad esempio, come tra i supporti di memorizzazione sia stato considerato anche l’HD DVD. Lo standard, infatti, è notoriamente defunto, battuto dal polo Blu Ray. Ciò nonostante, i futuri device venduti in relazione allo standard HD DVD dovranno prevedere un equo compenso da devolvere in virtù delle possibili copie private ospitate. Se però lo standard è defunto, non può essere previsto alcun supporto né alcun prodotto di questo tipo, se non in misura del tutto minore e trascurabile.

Per estensione, però, ogni singola definizione utilizzata sembra andare ben al di fuori delle qualità di una regola ben composta. Le definizioni di telefono, hard disk, penna usb e quant’altro sono infatti oggi sempre più labili: i confini si fanno confusi tra una categoria ed un’altra, tanto che diventa difficile capire esattamente ove identificare taluni prodotti o eventuali ibridi ancora da portarsi sul mercato. Non si parla di console da gioco ad esempio: come, dove vanno considerate? Ed una console portatile, invece? E come verranno considerati i tablet? Smartphone o veri e propri pc?

Ma un difetto su tutti sembra smontare l’architettura del testo del decreto, dimostrandone l’intrinseco anacronismo: come va considerata la dimensione “cloud”? Nei giorni in cui Google ha presentato la sua nuova offerta di archiviazione gratuita e si moltiplicano le offerte (gratuite e a pagamento) per il backup online, occorre pensare ad un equo compenso anche per i servizi oltre che per i supporti ed i device? La tassa, di per sé, sembra favorire proprio il cloud : tassando le soluzione hardware commercializzata in Italia, infatti, non si può che fare un piacere a quanti offrono o l’acquisto all’estero, o l’alternativa sulla nuvola: a basso costo, ad alta accessibilità e con alte garanzie. Fino a che punto la legge può però agire in modo tanto grossolano sul settore?

Lo chiamano “equo compenso”. Ma sono in pochi ad identificarlo come tale.

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