Sarah Scazzi e i caduti in Afghanistan: quando il social network sale alle cronache

Sarah Scazzi e i caduti in Afghanistan: quando il social network sale alle cronache

Una volta c’erano le interviste ai parenti, i diari a cui il cronista provava a strappare qualche pagina, a volte ci si doveva accontentare del sentito dire. Da quando però ci sono i social network, la cronaca giornalistica può curiosare dentro le vite delle persone, i loro pensieri, quando queste persone non ci sono più.

I casi di Sarah Scazzi e degli alpini caduti in Afghanistan hanno portato in primo piano sui giornali e nei TG, prepotentemente, le pagine Facebook e le relazioni che si instaurano nelle reti sociali sul Web.

Nel caso della quindicenne sparita nel nulla, nelle settimane della spasmodica ricerca ogni bit è stato scansionato, ogni pagina, ogni amico è stato sentito e a volte interrogato, nella convinzione che lì dentro, da qualche parte, ci fosse una spiegazione di quanto era accaduto.

Molti erano pronti a giurare che la giovane ragazza avesse incontrato sul social network “l’orco” che l’aveva rapita. Sappiamo poi com’è finita. Tanto che, con una battuta sarcastica, ma con qualche verità, Spinoza.it ha scritto “Arrestato lo zio, scagionato Facebook”.

Della tragica morte dei due caporali maggiori Gianmarco Manca e Marco Pedone e i due primo caporal maggiori Francesco Vannozzi e Sebastiano Ville e del soldato Luca Cornacchia, rimasto gravemente ferito, abbiamo scoperto tutto. La tecnologia ci ha permesso di vedere la mappa satellitare del luogo dell’attentato, le foto e le biografie dei soldati erano già disponibili pochi minuti dopo l’attentato su tutti i giornali online.

La prima fonte primaria sulle biografie di questi ragazzi, ancora una volta, Facebook. Le considerazioni degli ultimissimi giorni di vita sono state messe a confronto, copiate dai giornali a commento del loro destino (nessuno ha resistito dal citare il messaggio iniziale di Cornacchia sul suo profilo: “Tranquilli, cuccioli, vi riporto tutti a casa”, indirizzato ai suoi commilitoni).

I loro status, le foto delle fidanzate, dei figli: tutto è ancora lì come prima della tragedia. Pagine che ne generano altre: di solidarietà, di condanna al “mostro”, che fanno a gara a chi immagina le pene più severe. Una moltiplicazione caleidoscopica che ha qualcosa di inquietante, come quella di una pagina-gemella del profilo di Sarah Scazzi dove qualcuno avrebbe (il condizionale è d’obbligo) postato una foto della giovane all’obitorio.

Subito eliminata ancor prima che i carabinieri facessero in tempo a visitarla e studiarla con cura. C’è un’indagine in corso. Da venerdì, sempre su Facebook, circola un’altra applicazione, intitolata “Scioccante, le foto di Sarah Scazzi al suo ritrovamento!”. Ovviamente un fake, di cattivo gusto.

Difficile dare un giudizio sulla diffusione capillare del social network rispetto alla nostra vita. Ma una cosa ormai è certa: queste informazioni ci sopravvivono e sono in balia della curiosità dei posteri. Un buon motivo per riflettere su cosa davvero vogliamo resti di noi sul Web 2.0.

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