Anonimato? Non sui social

Il Pew Internet conferma il trend: i giovani migrano da Facebook a Twitter e tendono a condividere molte informazioni private. L'anonimato è una bufala.
Il Pew Internet conferma il trend: i giovani migrano da Facebook a Twitter e tendono a condividere molte informazioni private. L'anonimato è una bufala.

Se qualcuno ha ancora dubbi sulla consistenza del dibattito italiano in merito alla presunta pericolosità della Rete può leggere l’ultimo report del Pew Internet su giovani e social media. Anche in questo rilevante documento del prestigioso osservatorio di ricerca si stabilisce una verità assodata: l’anonimato, semplicemente, è quasi scomparso. Nulla che gli esperti di web 2.0 – il responsabile di questa estinzione – non sapessero, tuttavia mai quanto oggi si può affermare che repetita iuvant.

Il report (PDF) si occupa delle statistiche più aggiornate di presenza e comportamento dei teenager in Facebook, Twitter e altri social network. Molte di queste informazioni riguardano un trasferimento generazionale da Facebook a Twitter. Se il primo mantiene ancora solidamente la sua prima posizione, con il 94%, Twitter cresce più velocemente. E qualcuno, intervistando gli studenti americani, ha trovato nella sua eccessiva drama (una certa pesantezza di utilizzo) la ragione della passione per i minori verso altri strumenti, più semplici e nati nel cloud, basati sullo smartphone.

Se però si va a guardare quali sono gli abstract di questo lungo studio, non si può non notare il rapporto tra la forte presenza in Facebook e uno scarso uso dei fake e degli pseudonimi: essendo espressamente vietati sul social – che pretende nome e cognome e alcuni dati personali – la conseguenza è inevitabile.

Cosa condividono i giovani

Gli adolescenti condividono una vasta gamma di informazioni su loro stessi. Lo hanno sempre fatto. Quello che molti politici italiani sembrano ignorare è che i siti stessi sono progettati per incoraggiare la condivisione delle informazioni (unica vera ricchezza). Tuttavia, non bisogna credere che i ragazzi abbiano un approccio totalmente pubblico: più della metà di loro prende una serie di misure per limitare i profili e mostra una certa sensibilità nella gestione della reputazione.

Secondo lo studio del Pew i giovani condividono maggiormente queste informazioni:

  • Il 91% posta una foto di sé (era il 79% nel 2006)
  • Il 71% pubblica il nome della scuola (contro il 49%)
  • Il 71% rende nota la città di residenza (10% in più rispetto al 2006)
  • Il 53% pubblica l’indirizzo di posta elettronica (era il 29%)
  • Il 20% pubblica il numero di cellulare (nel 2006 era solo il 2%)
  • Il 92% pubblica il suo vero nome
  • L’84% condivide i propri interessi
  • L’82% pubblica la sua data di nascita
  • Il 62% pubblica lo stato sentimentale
  • Il 24% pubblica video in cui è rappresentato in volto
I giovani tendono a condividere sempre più informazioni sui social. La loro idea di anonimato è debole, ma sono abbastanza attenti alla reputazione.

I giovani tendono a condividere sempre più informazioni sui social. La loro idea di anonimato è debole, ma sono abbastanza attenti alla reputazione.

Altro che anonimato, gli obiettivi sono privacy e sicurezza

Qualcuno lo dica a Brunetta: il Web è un luogo molto densamente abitato, che ha certamente dato la stura ad alcuni comportamenti aggressivi, ma accollare alla Rete una cultura dell’impunità è davvero impertinente se si pensa a chi punta il dito.

Politica e Rete hanno semmai un obiettivo opposto da perseguire insieme: proteggere i dati sensibili, sia per la privacy dei cittadini che per l’efficacia dell’informazione. Una dimostrazione è la StrongBox ideata da Aaron Swartz, appena adottata dal New Yorker per garantire l’anonimato a chi volesse contribuire con informazioni delicate senza rischiare personalmente.
Un altro esempio per i critici di chi critica dovrebbe pervenire dalla sentenza della Corte di Strasburgo che dato ragione al cittadino francese che durante una manifestazione alzò un cartello insultante verso l’allora presidente Sarkozy.

La Corte ha stabilito che in caso di personaggi pubblici e politici i limiti di critica ammissibili sono più ampi:

A differenza di un comune cittadino, il politico si espone inevitabilmente e coscientemente ad un controllo attento delle sue azioni tanto da parte dei giornalisti che dei comuni cittadini. (…) L’uomo politico deve conseguentemente mostrare una maggiore tolleranza.

Una possibile soluzione

Recentemente il caso, denunciato dalla BBC, di un video dai contenuti violenti postato su Facebook ha aperto un interessante dibattito nel Regno Unito. Nessuno però si è permesso di semplificare tanto da arrivare alle definizioni e proposte assurde viste e sentite in queste settimane in Italia.

La conclusione, più intelligente e costruttiva, di questo dibattito è che il percorso migliore deve vedere i bene intenzionati lungo la stessa direzione: le associazioni, la politica, i siti, devono collaborare per affinare al massimo i rispettivi strumenti.

Chi difende i diritti di espressione deve denunciare le censure, chi legifera deve prendere in considerazione gli effetti potenziali di ogni sua decisione restrittiva o meno, chi gestisce questi spazi nella Rete deve sentire come propria la responsabilità dell’impatto umano delle proprie politiche.

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