La mappa della sharing economy

Una ricerca sulla sharing economy italiana racconta di una realtà di 138 piattaforme che cresce a vista d'occhio e piace agli italiani.
Una ricerca sulla sharing economy italiana racconta di una realtà di 138 piattaforme che cresce a vista d'occhio e piace agli italiani.

Tre milioni di persone hanno praticato lo sharing nell’ultimo anno in Italia per la prima volta. Basterebbe questo dato per comprendere l’ascesa della sharing economy, l’economia basata sulla condivisione in rete delle risorse, che sta rivoluzionando il mondo dei servizi, dai beni alla raccolta fondi, dal turismo al trasporto. A questo settore da normare (forse), ma sicuramente da non soffocare è stata dedicata un’intera giornata a Montecitorio in occasione della seconda edizione di Sharitaly, che ha presentato due indagini rivelatorie.

Soltanto un anno fa Sharitaly aveva avuto semplicemente l’obiettivo di portare all’attenzione di un pubblico il tema della sharing economy, allora quasi sconosciuto. In questi dodici mesi, invece, l’interesse è cresciuto a tal punto che anche la politica si è messa in ascolto e due giorni fa ha ospitato una interna giornata a Montecitorio. Cosa è successo? La risposta che si dà Marta Mainieri, madrina della manifestazione e founder di Collaboriamo, è che la spinta dal basso è troppo forte perché si pensi di lasciare il mercato così com’è, ma al contempo è troppo importante e nuovo perché si pensi di normarlo alla vecchia maniera. Ecco la ragione del titolo del convegno (il secondo sul tema dopo quello di settembre): “Regolare senza soffocare”.

La mappa della sharing economy

La rete di imprese che si dedicano a questo genere di servizi non supera quasi mai i 10.000 utenti attivi, nonostante l’ultimo Rapporto Coop 2014 rilevi che la predisposizione a condividere degli italiani è superiore anche a quella di altri paesi d’Europa. Insomma, anche questo settore soffre di parcellizzazione. Con pochi soldi e soprattutto più offerta che domanda. Un motivo è ovvio: il suo modello economico è basato anche sulla risposta alla crisi dei modelli tradizionali e punta a rispondere ai bisogni dei cittadini coinvolgendoli, quindi portando a valore ciò che prima non lo era: la propria auto, il proprio tempo, i propri risparmi, il proprio lavoro, le proprie cose. L’altra ragione è però che non tutti si sentono garantiti da questi servizi, perché spesso operano in una singolare zona grigia fiscale e normativa e questo toglie fette di mercato.


Vale la pena leggere l’intero report sulla mappatura della sharing economy italiana, elaborata con Phd Media, dove emerge che le piattaforme collaborative sono 138, divise in 11 ambiti, tra i quali è maggioritario il crowdfunding (30% delle piattaforme), i servizi dedicati allo scambio o al noleggio di beni di consumo (20%), i trasporti (12%) e il turismo (10%). Se si considerano i numeri in termini assoluti, 97 piattaforme dedicate alla condivisione di beni, servizi o competenze, più altre 41 di crowdfunding. Per intendersi, UberPop o AirbnB nella prima cerchia, Eppela nella seconda.

Le piattaforme collaborative che operano in Italia divise per ambito.

Le piattaforme collaborative che operano in Italia divise per ambito.

Secondo la ricerca di mercato condotta su un campione di 1.000 casi, curata da Federico Capeci, esperto di comunicazione e ricerche digitali, il trend del fenomeno è chiaro: si sta passando dalla moda al modello, dalla insicurezza alla voglia di adoperare questi servizi in modo continuativo. Tra utenti della prima ora e la massa critica si è già superato il 50% e la metà degli sharer ha meno di 30 anni. I servizi che vanno per la maggiore sono lo scambio e baratto, l’alloggio di una camera o casa privata, la mobilità peer-to-peer fornita da altre persone.

Soltanto otto piattaforme di sharing economy in Italia (il 26%  del totale) superano i 10.000 utenti.

Soltanto otto piattaforme di sharing economy in Italia (il 26% del totale) superano i 10.000 utenti.

Di cosa hanno bisogno le piattaforme

Nella mappatura, Collaboriamo evince che le piattaforme italiane o che operano in Italia hanno bisogno soprattutto di finanziamenti per crescere e di norme chiare, da qui la forte ricerca di queste aziende di una relazione con le autorità politiche. Questo il commento nel discorso inziale a Roma di Marta Mainieri:

L’offerta di nuovi servizi e di nuove opportunità per integrare il proprio reddito va, a volte, di pari passo, alla mancanza di garanzie per i lavoratori della sharing economy (ma è corretto parlare di lavoratori della sharing economy?). Sorgono spontanee, dunque, molte domande: che cos’è davvero sharing economy e che cosa, invece, semplice innovazione di mercato? È corretto che le piattaforme collaborative creino opportunità di lavoro a tempo pieno o dovrebbero invece promuovere solamente occasioni per incrementare il reddito di un cittadino? Come l’innovazione tecnologica può supportare lo sviluppo di un territorio e la coesione sociale? Come favorire una crescita che riesca a includere anche le categorie tradizionali?

La risposta politica

Dalla sala del Mappamondo Antonio Palmieri ha lanciato l’idea di ispirarsi ai decreti sulle startup per ragionare su una possibile legislazione pro-sharing. L’idea è che questa particolare industria assomigli in generale alle startup: ci sono tante imprese con pochi dipendenti che convivono assieme a colossi economici, forse l’unica vera differenza è che la startup mette al centro l’innovazione tecnologica mentre la piattaforma di condivisione la usa, nella misura necessaria, per creare una opportunità economica dove prima non c’era nulla.


La questione sta tutta qui: evitare l’indifferenza e allo stesso tempo che la politica metta nei pasticci la sharing economy con una sovralegislazione inutile. Emil Abirascid, che proprio al tweet di Palmieri ha risposto con questa preoccupazione, lo spiega a Webnews:

Dio ci salvi dalla leggina in stile startup per dirci cos’è la sharing o cosa rientra in determinati steccati. Da un punto di vista pratico, la sharing economy coinvolge molte persone che offrono servizi che prima, per dirla tutta, o non avrebbero offerto oppure offrivano in nero. La sharing economy ha il grande merito di aver portato alla luce questa economia, anche perché c’è l’Iva: l’utente acquista il servizio, paga, vuole una ricevuta, il fornitore manda fattura. Lo scambio tra cliente e fornitore di servizio e quello tra piattaforma di gestione e fornitore sono i due elementi critici, sui quali si può ragionare, ma restano scambi dove non puoi nasconderti al fisco come avrebbe fatto lo stesso fornitore, mettiamo un idraulico, senza la piattaforma.

L'esigenza di un quadro normativo fa capolino nella ricerca di mercato di Federico Capeci.

L’esigenza di un quadro normativo fa capolino nella ricerca di mercato di Federico Capeci.

Se dunque le piattaforme di economia collaborativa stanno faticosamente cercando massa critica portando in dono mercati prima impossibili sia lato cliente che lato fornitore, vanno sciolti prima alcuni nodi che assicurino un vero vantaggio economico, e un quadro fiscale e giuridico, come dice Capeci, «che non frustri la motivazione di base dello sharing ma che dia la giusta rete di norme entro le quali muoversi in modo socialmente corretto».

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