La Svizzera ha un problema: gli smartwatch

Nell'ultimo trimestre del 2015, per la prima volta sono stati venduti nel mondo più smartwatch che non orologi svizzeri: un cambio radicale di prospettiva?
Nell'ultimo trimestre del 2015, per la prima volta sono stati venduti nel mondo più smartwatch che non orologi svizzeri: un cambio radicale di prospettiva?

Se la Svizzera vuol continuare a vantare la propria tradizione e la propria leadership nel mondo degli orologi, dovrà fare in fretta i propri conti: per la prima volta, infatti, sono stati venduti più smartwatch che non orologi svizzeri. Si potrà obiettare che il confronto non sia tra entità omologhe e che quindi lasci il tempo che trova, ma un fatto è inoppugnabile: gli smartwatch, che fino a due anni fa praticamente non esistevano e che fin da subito hanno attirato strali e curiosità dall’industria di precisione Svizzera, sono il rivale più temibile per i grandi marchi della tradizione elvetica.

Complessivamente l’industria svizzera ha immesso sul mercato nell’ultimo trimestre del 2015 circa 7,9 milioni di orologi, in calo del 4,8% rispetto agli 8,3 milioni registrati un anno prima. Contemporaneamente, recitano i dati Strategy Analytics, gli smartwatch venduti nel mondo hanno raggiunto quota 8,1 milioni, superando così di alcune centinaia di migliaia di unità la controparte.

La crescita degli smartwatch è improvvisa quanto incredibile: +316% rispetto al 2014, all’interno di un mercato occupato per il 63% da Apple Watch e per il 16% dalle omologhe offerte Samsung. Con ogni probabilità la crescita degli smartwatch è ora destinata a rallentare in attesa della nuova generazione di device, mentre il mercato degli orologi svizzeri potrebbe invece incontrare ostacoli tanti nell’attuale congiuntura economica, quanto nella chiara concorrenza derivante dai nuovi dispositivi “smart”.

Quando la Svizzera ignorò il rischio

Secondo Neil Mawston, Executive Director at Strategy Analytics, l’industria svizzera paga l’estrema lentezza con cui ha risposto alla sfida degli smartwatch e oggi un brand come Tag Heuer raggiunge, con il proprio Tag Heuer Connected, appena l’1% di un mercato che rischia di fagocitare una delle casseforti dell’economia svizzera; Swatch, parallelamente, continua a negare la bontà di Apple Watch («un giocattolo interessante, ma non è una rivoluzione») mentre corre alla ricerca della propria risposta (che ancora si fa però attendere).

I produttori tradizionali speravano probabilmente di rifugiarsi nella sacca ricca del lusso, ma anche in questa facoltosa nicchia rischiano di perdere la propria leadership: l’Apple Watch in formato “Edition“, nonché ulteriori ipotetiche formulazioni che saranno annunciate durante l’evento del prossimo 15 marzo, potrebbero dare una ulteriore spallata al comparto ampliando notevolmente il campo d’applicazione della produzione “smart”.

Il problema non è certo di poco conto per il paese elvetico. Così spiegava Credit Suisse in un report di fine 2013 (pdf), immediatamente antecedente all’inizio della parabola discendente (almeno per quanto la si può ricollegare direttamente all’avvento degli smartwatch):

L’industria orologiera è diventata il terzo settore svizzero più importante per le esportazioni, dopo l’industria farmaceutica e l’industria meccanica. Con una quota del 95%, praticamente l’intera produzione è destinata alle esportazioni. Difficilmente si riesce a trovare un altro settore così orientato alle esportazioni e che si deve affermare in modo così netto nel quadro internazionale. […] Con un fatturato record associato alle esportazioni di 21.4 mia. CHF nel 2012 – una percentuale pari al 10,7% delle esportazioni complessive di merci – l’industria orologiera ha rappresentato il terzo settore svizzero come volume di esportazioni, dopo l’industria farmaceutica (58.5 mia. CHF, 29,2%) e appena dietro l’industria meccanica (21.5 mia. CHF, 10,7%).

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L’analisi firmata Credit Suisse vede il mondo degli orologi diviso sostanzialmente tra due superpotenze: la Svizzera per gli orologi di alta gamma ed a forte valore aggiunto, e la Cina in termini di volumi d’affari sugli orologi di basso profilo. L’analisi vedeva inoltre buone prospettive per il mercato, ignorando quindi in modo totale quella che sarebbe stata la rivoluzione successiva. Il report indicata un «impressionante ritorno di un comparto dato per morto», e sottolineava il raddoppio delle esportazioni all’alba del nuovo millennio come base su cui costruire le speranze per il prossimo futuro. Ogni fattore indicava orizzonti positivi: l’aumento delle esportazioni, il traino del lusso, la forte differenziazione dei mercati sull’export, scarsa dipendenza dal tasso di cambio, leadership consolidata. I fattori di rischio, per contro, erano giustamente individuati in possibili cambiamenti di prospettiva nella percezione del prodotto “orologio”, ma in nessun modo veniva ipotizzato un ribaltamento del tavolo tanto forte e in nessuna forma l’innovazione digitale veniva annoverata tra gli elementi di possibile concorrenza:

Esiste un rischio che gli orologi – come altri prodotti di lusso in passato – improvvisamente non siano più di moda? Il rischio appare basso: la funzione dell’orologio come strumento di misurazione del tempo assume un ruolo secondario in epoche in cui spopolano cellulari e computer. Per chi lo possiede, l’orologio rappresenta piuttosto un indicatore sociale, che comunica all’esterno valori come lo status o la personalità. Sui mercati emergenti in forte espansione, la grande popolarità di status symbol occidentali dovrebbe restare intatta. Rispetto ad altri beni di lusso, come ad es. le automobili o l’arte, l’orologio presenta il vantaggio di poter essere indossato. Inoltre gli orologi sono l’unico gioiello maschile universalmente riconosciuto. Tuttavia le preferenze possono cambiare nel corso del tempo.

Eppure il rischio era già nell’aria e tanto il mercato quanto gli analisti avrebbero dovuto forse percepire qualcosa. In contemporanea all’uscita del report Credit Suisse del 2013, Webnews pubblicata il proprio Speciale Smartwatch: nomi quali Pebble, i’m Watch e Galaxy Gear erano ormai noti e intanto Apple già muoveva le proprie pedine nei laboratori di Cupertino. Il rischio non poteva non essere noto, dunque: era stato semplicemente sottovalutato, pesantemente sottovalutato, pericolosamente sottovalutato. Non si era capito che proprio la scarsa utilità dell’orologio come misuratore ne rendeva più fragile il posizionamento di mercato, aprendo così a nuovi attori che avessero proposto nuovi tipi di lusso, nuove forme di status, nuovi strumenti identitari parimenti in grado di fungere da indicatori sociali.

Quello che in quei mesi appariva come un “lusso nerd”, poco alla volta avrebbe scavato la percezione dell’orologio e l’intelligenza del device avrebbe sottratto spazio al prestigio del marchio tra i paradigmi di scelta di milioni di acquirenti. Il fascino del digitale rischia ora di surclassare il fascino della precisione certosina dei meccanismi svizzeri. Il gusto della tradizione rischia di cadere sotto il lussureggiante profumo della modernità. A cambiare è la percezione, dunque il motore primo del “fascino”. E se così fosse la Svizzera avrebbe chiaramente un problema. Un grosso problema.

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