La geografia dei poteri, fra Big Data e privacy

Al convegno del Garante per il Privacy Day una domanda fondamentale: se i dati sono un asset privato ma anche democratico, come gestirli e chi deve farlo?
Al convegno del Garante per il Privacy Day una domanda fondamentale: se i dati sono un asset privato ma anche democratico, come gestirli e chi deve farlo?

Come da buona e recente tradizione in occasione della Giornata Europea della protezione dei dati personali l’Autorità Garante italiana ha organizzato un convegno alla Camera dei deputati. Quest’anno il tema è particolarmente impegnativo e importante: la nuova geografia dei poteri sulla base dei dati raccolti dalle società private. Fatto che modifica profondamente il tessuto democratico, e forse ne erode qualche parte.

Il convegno (video) è stato introdotto da un ottimo intervento di Antonello Soro, presidente dell’authority, che si è concentrato sulle dinamiche con le quali la tecnologia ha cambiato i paradigmi e le consuetudini della politica e dell’esercizio dei diritti come la riservatezza e la protezione dei dati personali, per poi sottolineare come ci sia una spinta uguale e contraria a controllare tutti questi dati per la sicurezza collettiva. Col risultato che siamo in difficoltà a governare questi processi.

Significa in sostanza non sapere come estrarre valore da questo nuovo asset, lasciando che sia alla mercé di interessi privati o di maneggiamenti delle intelligence.

La logica posta alla base dei Big data con il suo insaziabile bisogno di accumulare dati porrà sfide ancora più complesse che solo in parte sarà possibile risolvere attraverso una maggiore regolamentazione degli operatori tecnologici, attualmente attestati su un regime di sostanziale autodichia. (..) L’attenzione ai Big data non può riguardare soltanto le sue implicazioni scientifiche e tecniche o gli sconvolgenti effetti delle innovazioni sull’economia. Ci deve preoccupare anche il potenziale discriminatorio che dal loro utilizzo, anche rispetto a dati non identificativi o aggregati, può nascere per effetto di profilazioni sempre più puntuali ed analitiche: in un gioco che finisce per annullare l’unicità della persona, il suo valore, la sua eccezionalità.

Il #PrivacyDay è insomma iniziato molto bene, con un discorso concreto, poi forse si è lasciato andare ad analisi terribilmente teoriche e non seguendo più la traccia data dal titolo del convegno. Si è parlato molto poco di privacy e si è parlato tantissimo di democrazia, di tenuta delle istituzioni e si è discusso parecchio – forse troppo – di post-qualcosa, seguendo quella che sembra essere diventata un’ossessione contemporanea. Peraltro parziale.

Certo, è indubbio che la Rete abbia eroso le basi gerarchiche della democrazia, essendo la più incredibile e vasta forma di parificazione mai avuta dall’uomo (se non altro nella creazione e condivisione di una opinione) e così quella “solitudine nella moltitudine” citata da Giulio Tremonti – uno dei relatori del convegno – ricorda le profezie dei pensiero filosofico di fine ottocento. Tuttavia, quando si scende nel concreto delle grandi sfide dei big data, è parso più interessante il contributo di Diego Piacentini, che dal suo team digitale ha lanciato l’idea di un framework pubblico che quei dati li vuole, li ha, e li sappia anche utilizzare.

Piacentini e il chatbot di Stato

A Piacentini è spettato il compito di far vedere uno scenario possibile (“si può fare”, ha detto in conclusione citando il Gene Wilder di Frankestein jr.) basato su un framework nazionale. È l’ambizione più alta del Commissario al Digitale, quella raccontata in premessa proprio oggi da un membro del team, Guido Scorza, parlando della semplificazione legislativa tramite la tecnologia, detta anche Lex Datafication: i milioni di bit delle leggi possono essere letti dal machine learning, si produce una legislazione coerente e semplice che valga ovunque e poi si creano vari servizi digitali al cittadino per cui «il cittadino che chiede ottiene una risposta veloce in chat, sempre la stessa perché a Catanzaro e Milano si fa uguale».

La sommatoria di intelligenza nella lettura e semplificazione legislativa, una piattaforma pubblica equivalente a quelle private capace di raccogliere i big data utili agli enti pubblici per erogare servizi innovativi, e strumenti di chat per il cittadino basati sull’apprendimento automatico è la rivoluzione pensata da Piacentini. Dove con ogni evidenza la geografia dei dati è più un’opportunità che un rischio.

Le democrazie digitali

Dopo anni di assoluta diffidenza e ignoranza tecnica, politica e Rete stanno imparando a conoscersi e a prendersi le misure. Il concetto che più si avverte, anche se declinato in moltissimi modi, è cercare di capire se è più corretto sostenere che le persone condividono ciò che sono oppure se diventano ciò che condividono. E in che misura. Insomma, quanto individuo e società siano “plastici” in seguito alla disintermediazione dei vecchi corpi intermedi (parlamenti, partiti, mass media, scuola, scienza). Per dirla col garante:

Le piattaforme digitali sono destinate ad acquistare il ruolo di mediatori della realtà, di interpreti di ciò che accade o di quello che potrà accadere e di assumere decisioni per l’intera collettività. E nessuno avrà dati in quantità e qualità paragonabili a quelli a loro disposizione, mentre in pochi saranno capaci di dare loro un senso utile.

Qui si gioca tutta la partita: dovremo imparare a gestire politicamente degli asset inventati da altri – cioè i Big Data – e farlo per il bene comune, senza farsi trascinare – come successo alle intelligence – dall’appetito di raccogliere tutto in nome di una sicurezza intangibile e spesso soltanto retorica, ma farlo puntando sulla consapevolezza dell’opinione pubblica, nel frattempo però assorbita proprio dall’impero algoritmico che considera quei dati come risorsa puramente commerciale.
Tra dati e privacy comunque non può più essere guerra, questo lo si è ormai compreso. Deve scoppiare un’intesa.

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