GlassUp accetta la sfida con Google

Francesco Giartosio, CEO di GlassUp, difende il suo prodotto e accetta la sfida all'ufficio Marchi. Glass è termine troppo comune per essere depositato?
Francesco Giartosio, CEO di GlassUp, difende il suo prodotto e accetta la sfida all'ufficio Marchi. Glass è termine troppo comune per essere depositato?

Se in un qualsiasi dizionario si cerca la parola glass, in genere come prima definizione si trova il vetro, come seconda, per sineddoche, il bicchiere e come terza opzione c’è l’occhiale. Parte da questa semplice considerazione la fiera opposizione di GlassUP a Google. La startup italiana è stata invitata da Mountain View a cambiare nome, ma il CEO Francesco Giartosio ha dichiarato che la diatriba finirà all’Ufficio Marchi e Brevetti.

La vicenda di GlassUp, gli occhiali ultra-tech ideati da una piccola startup di Modena, si sta trasferendo dal confronto tecnologico a quello giudiziario. D’altra parte, non c’erano molte alternative: cedere e cambiare il nome del proprio device, oppure contrastare il colosso della Silicon Valley. E i tre soci della startup hanno deciso per la seconda possibilità, sapendo che qualche mese non cambierà il destino del loro device, con questo nome o un altro.

Il paradosso del marchio registrato

Google ha registrato il marchio “Google Glass” e anche il marchio “Glass” in quasi tutti i paesi nella categoria “elettronica di consumo”, non potendo ovviamente pretendere di registrare come marchio un nome comune nella categoria degli accessori di abbigliamento. E qui sta il problema: viviamo in un mondo in cui è normale che “mela” significhi qualcosa di ben preciso a parte il frutto, oppure “finestre”. Le parole comuni possono essere depositate come marchi di categorie differenti, ma secondo Giartosio non è corretto:

Noi di GlassUp non siamo d’accordo con questa scelta in quanto il nostro prodotto è davvero un occhiale. Se accettiamo questo concetto, chiunque si potrà impossessare anche della parola scarpa – se ad esempio sta sviluppando delle scarpe intelligenti – o guanto, o anche altro ancora. Insomma, tutti i wearables sono elettronica, ma sono anche abbigliamento.

Peraltro, i tempi danno ragione a GlassUp, che nell’ottobre 2012 depositava il nome in Italia, in previsione di fare poi l’estensione internazionale retroattiva come è di prassi per le startup nostrane. Nessuna imitazione dell’occhiale di Big G, come ha tenuto a precisare rispondendo qualche tempo fa anche a un commento su Webnews. Quando nella primavera di quest’anno l’ufficio di GlassUp è stato contattato telefonicamente da Google per essere informato che se non avessero rinunciato al marchio GlassUp avrebbero fatto opposizione all’ufficio marchi, il dubbio ha attanagliato lo staff per qualche giorno, poi la decisione:

Ci abbiamo pensato e abbiamo deciso di non dargliela vinta, e loro hanno fatto opposizione. Si tratta quindi di una procedura amministrativa, non legale; semplicemente l’ufficio Marchi e Brevetti ascolterà le parti e deciderà chi ha ragione. Il tutto prenderà molti mesi, dovrebbe concludersi a fine anno.

Gli scenari possibili: intervista a Giartosio

Sentito su questa decisione di non cedere, Giartosio si schernisce, ma è anche ben consapevole di essere solo all’inizio di un percorso lungo e complesso, in cui tutto sommato avere un buon avvocato sarebbe stato comunque necessario.

In questa diatriba sembra che in fondo GlassUp abbia tutto da guadagnare…
«In un certo senso, sì: dovessimo perdere, cambieremo nome, ma intanto non abbiamo accettato di perdere senza la decisione di una terza parte. Ovviamente l’eventuale cambio di nome deve essere preso in fretta, nei prossimi mesi. L’iter prevede il confronto delle parti, la mediazione, la decisione, un tempo minimo per depositare una memoria e infine l’esito. Abbiamo calcolato che finirà entro dicembre».

L’unica preoccupazione, per una giovane startup, può essere l’impegno economico per le spese legali: come l’avete affrontato?
«Abbiamo trovato un avvocato americano che ha proposto di essere ricompensato con quote della società».

Ma questo è un work for equity, previsto anche dalla nuova legge sulle startup!
«Sì, esatto. D’altra parte stiamo sviluppando un device, chi produce questi oggetti pieni di tecnologie sa bene che bisogna aspettarsi in futuro delle contestazioni sui brevetti. Per questo era comunque importante fornirsi di un legale, anche per il futuro, quando si parlerà di brevetti e non più di marchi».

Il GlassUp si presenta come un vero occhiale, dal peso e funzionalità persino migliori di quelle dell’omologo di Big G, aperto al crowdfunding. È già completamente progettato?
«Non ancora. Ci sono gli elementi elettronici, abbastanza semplici, e poi altri elementi da tenere in considerazione. Inoltre, per noi si tratta di un vero occhiale, stiamo sviluppando la montatura insieme alla migliore occhialeria italiana. Prevediamo di venderne 100.000 esemplari nel 2014 e 200.000 nel 2015».

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