L’Italia è da sempre la seconda manifattura d’Europa e ha una tradizione industriale fra le più gloriose a livello mondiale. Tuttavia senza adeguarsi alle nuove tecnologie tutto ciò è destinato a diventare una targhetta da museo. Per questo il governo Renzi ha varato un Piano per la cosiddetta Industry 4.0, la definizione che si dà a ciò che in Italia, per il momento, è stato impossibile vedere, dato che metà delle nostre aziende non investe mai in tecnologia.
Il Piano Nazionale Industria 4.0 (pdf) è un modello piuttosto complesso fatto di incentivi per gli investimenti privati – tramite il super ammortamento al 250% per i nuovi macchinari – e un’altra direttrice che palazzo Chigi spera di migliorare, quella del contributo dei ricercatori universitari, che si prevede raddoppi nell’ambito dell’impresa come in proporzione alla crescita dell’interesse delle nuove generazioni mostrata per lo sviluppo e l’innovazione (basti pensare a tutto l’ecosistema startup). Il processo sarà però difficile, per almeno due ragioni: il Belpaese ha perso il treno dell’elettronica, negli anni ’70-’80, dunque ha una base di fatturato più debole dei paesi concorrenti e anche di competenze per stabilirvi la quarta, caratterizzata dall’utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse, collegate a Internet.
#pianoindustria4.0 e'patto di fiducia con imprese con direttrice chiara:investimenti in innovazione e produttività pic.twitter.com/6qaTJ4kgdb
— Carlo Calenda (@CarloCalenda) September 22, 2016
Il Piano
IL MISE ha fatto un ottimo lavoro nella elencazione e descrizione dei punti sui quali si deve scommettere, a partire dalle tecnologie abilitanti e i modelli ai quali ci si può ispirare. Il piano è tipicamente italiano, cioè prevede una cabina di regia a livello governativo dove insieme ai ministeri coinvolti siedono i politecnici (Milano, Torino e Bari) e la Sant’Anna di Pisa, i centri di ricerca, le associazioni di categoria e i sindacati; consapevoli del fatto che il sistema industriale è molto spesso semi-industriale perché basato sulle piccole e medie imprese, che limita la presenza e il peso dei grandi player nei processi decisionali, si è pensato che l’unico modo di guidare il Paese verso questa industria 4.0 sia orientare in modo neutrale una governance pubblico/privato. Lo Stato, da parte sua, cercherà di assicurare sempre più banda larga (si vuole copertura totale a 30 mbps nelle aziende entro quattro anni e il 50% delle aziende a 100 mbps), criteri di interoperabilità degli IoT e un paio di miliardi nel Fondo di Garanzia e nei contratti di sviluppo territoriale.
Oggi al Mise prima riunione della Cabina di Regia del #pianoindustria4.0 #investimenti #produttività #innovazione pic.twitter.com/qtbwIs1zhc
— MinSviluppoEconomico (@MinSviluppo) September 21, 2016
Il superammortamento
Se ne è parlato anche all’ultimo evento ENI, WeMake: quanto si può usare la leva dell’ammortamento per introdurre tecnologia nelle imprese? Attualmente l’ammortamento è del 140% ma si vuole portarlo al 250%, cioè lo Stato agevola molto l’acquisto di soluzioni avanzate e in più aggiunge un credito d’imposta per Ricerca e Sviluppo fino a 20 milioni di euro, detrazioni fiscali fino al 30% per investimenti fino a un milione di euro nelle startup e pmi innovative, altri fondi dedicati alla brevettazione e al co-matching con startup industry 4.0. Ovviamente l’obiettivo è recuperare terreno rispetto agli altri Paesi facendo diventare l’Italia quello col più alto tasso di investimento early stage.
Il superammortamento ha fatto molto discutere i commentatori economici: è utile o dannoso? Secondo alcuni dovrebbe essere più alto – e il governo sembra essersene convinto – secondo altri è stato male utilizzato e come al solito alcuni ne hanno approfittato per comprarsi l’auto da intestare all’azienda. Il Piano I4.0 arriva a un “iperammortamento”, per cui se ad esempio un’azienda acquista un robot da un milione di euro la riduzione delle tasse in 5 anni arriva a 360 mila euro.
Funzionerà?
Questo piano da qui al 2020 è certamente ambizioso, ma soprattutto dopo anni, anzi decenni, finalmente si torna a parlare di piani industriali in questo Paese. Tolti i fronzoli delle campagne di comunicazione, i roadshow e tutto il resto, c’è un impegno pubblico di incentivazione dell’acquisto di tecnologia considerata strategica, ed è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. È molto importante, tra l’altro, che da nessuna parte si vada a parlare dell’impatto occupazionale, che è tema differente. È ovvio che la robotizzazione può, come anni fa la meccanizzazione, diminuire la forza di lavoro umana, ma non è il ragionamento giusto per chi deve prima di tutto pensare alla produttività e alla presenza dell’Italia sui mercati. L’innovazione è un strada segnata ma si può guidare (se ne parlerà anche al prossimo Festival di Pisa), quello che non si può fare è restare un’altra volta immobili, conservativi. A tutto svantaggio degli stessi lavoratori, sempre meno alfabetizzati sulle nuove tecnologie.
Che funzioni non è detto, però. Si aprono tante sfide. C’è quella di coordinamento e controllo del denaro dei contribuenti utilizzato, e poi c’è quella della conoscenza: fino ad oggi gran parte delle aziende italiane, cioè le pmi, non hanno comprato tecnologia e quelle che lo hanno fatto le hanno utilizzate poco e male, o addirittura sono fallite. Portare un sistema tradizionalmente analfabeta tecnologicamente e molto frammentato a un mondo fatto di interconnessione, deep learning, Big Data, cloud, IoT, non è una passeggiata.