Stefano Mizzella: didattica e web2.0 - Parte Seconda

Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a Stefano Mizzella, qui trovate la prima.

MIT, Berkeley e moltissime altre università del pianeta si stanno
muovendo in questa direzione, e in Italia? Come vedi la situazione del
nostro paese? Sei a conoscenza di qualche progetto meritevole?

Sarebbe troppo semplicistico e quasi scontato affermare che, almeno per il momento, un paragone tra la situazione italiana e quella di “mostri sacri” come MIT e Berkeley assomigli a una lotta impari destinata a un tragico esito. Esempi straordinari come quelli forniti da OpenCourseWare e OpenWetWare sono sotto gli occhi di tutti e rappresentano il modello ideale a cui guardare.

A livello internazionale gli esempi meritevoli non si fermano certo qui. Mi piacerebbe citare in quest’occasione anche ResearchGate, un progetto di recente sviluppo creato da alcuni dottorandi inglesi e tedeschi per offrire agli scienziati un ambiente in cui poter interagire e collaborare, così come merita di essere menzionato anche SciVee, non a caso subito ribattezzato come lo “YouTube della scienza”.

Per quanto riguarda invece il nostro paese, una volta preso atto del ritardo rispetto alle più prestigiose realtà universitarie internazionali, possiamo decidere di nasconderci dietro tale ritardo o, al contrario, provare a recuperare terreno promuovendo progetti e iniziative innovative.

Ho avuto modo di ragionare su questi temi lo scorso 17 Maggio all’interno di Sci(bzaar)net, un interessante brainstorming incentrato su scienza, rete e open culture. Vorrei segnalare a tal proposito il contributo fornito da Federico Bo, il quale proprio in quell’occasione ha provato a fotografare in maniera molto puntuale le iniziative italiane che più di altre si avvicinano a quella che potremmo definire “Università 2.0”.

Iniziative come quelle di BlogLab così come le numerose iniziative online proposte dal Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino fanno certo sperare in un deciso passo avanti rispetto al passato.

Personalmente ho trovato terreno molto fertile anche presso l’Università Bicocca di Milano, dove stanno maturando alcune interessanti iniziative nate allo scopo di incentivare e migliore la cooperazione e la condivisione scientifica tra docenti e studenti. La Bicocca può vantare in tal senso una grande esperienza per ciò che concerne l’ideazione e la gestione di applicazioni e strumenti dedicati all’e-learning, come per esempio la piattaforma Docebo.

Passando al versante della ricerca, sempre in Bicocca sto lavorando all’interno di un Osservatorio sui Nuovi Media che punta a studiare il rapporto tra giovani e nuove tecnologie attraverso un approccio prettamente qualitativo, aspetto questo spesso trascurato nel panorama metodologico italiano.

Uno dei principali obiettivi dell’Osservatorio è proprio quello di analizzare da vicino, attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla “digital ethnography“, la “dieta digitale” degli studenti universitari, provando a comprendere il loro rapporto con le nuove tecnologie unendo diversi aspetti provenienti dalla sociologia, dalla psicologia e dall’antropologia.

Su quali servizi punteresti per il futuro? Dove vedi le possibili risorse?

Personalmente mi sento di puntare su quei sistemi che permettono la creazione e la gestione di ambienti di apprendimento virtuale. Mi viene in mente proprio Studeous, che tu stesso hai giustamente evidenziato come validissima alternativa, per di più gratuita, a un sistema come Blackboard.

Da quel che ho potuto vedere, simili piattaforme hanno il merito di investire moltissimo sull’accessibilità e su un alto grado di user experience, allo scopo di rendere l’esperienza di apprendimento il più interattiva e coinvolgente possibile.

Non a caso queste piattaforme possono essere definite dei veri e proprio social network in cui studenti e docenti hanno la possibilità di crearsi un proprio profilo personalizzato attraverso il quale possono entrare in contatto con il resto della classe-community, proprio come avviene all’interno di social network “generalisti” come Facebook o MySpace. A tal proposito, uno strumento come Ning offre la possibilità, sempre gratuitamente, di costruire in modo estremamente semplice e veloce un social network personalizzato dedicato magari a una classe piuttosto che a un corso di laurea.

Oltre a questo, se fossi un docente cercherei di raccogliere e mettere in condivisione tutte le lezioni del mio corso sia in modalità “podcasting” che “vodcasting”, offrendo un “taglio” dei contenuti didattici più vicino ai video di YouTube che alle lezioni lunghe e noiose del Consorzio Nettuno.

Ancora a proposito di previsioni, mi aspetto un’ulteriore evoluzione a breve-medio termine anche delle Web TV e delle Web radio universitarie, due ottimi strumenti non solo per la didattica ma anche e soprattutto per il consolidamento delle dinamiche comunitarie tra gli studenti dei vari atenei. In più, sia le Web TV che le Web radio universitarie rappresentano due ottimi laboratori in cui gli studenti possono iniziare a sperimentare competenze lavorative specifiche anche in vista di una futura attività professionale post-laurea.

Come pensi che si possano conciliare le logiche informali del 2.0, con gli aspetti dell’insegnamento formale e tradizionale delle accademie?
E` possibile un’unione o i due mondi sono destinati a rimanere separati?

I due mondi da te individuati non solo possono, ma devono convivere e ibridarsi proficuamente. Il problema principale che spesso impedisce un reale utilizzo di piattaforme 2.0 in ambito accademico non è poi tanto tecnologico, come il più delle volte si è invece portati a credere, bensì “culturale”. Intendo dire che l’Università fa davvero fatica a comprendere non tanto le caratteristiche tecnologiche di una piattaforma o di un servizio, quanto gli aspetti “etici” e culturali che ruotano intorno a quella stessa piattaforma o servizio.

Provo a farti un altro esempio: prendendo spunto ancora una volta dalle slide dell’intervento di Federico Bo, sono almeno 50 le Università in Italia che utilizzano Moodle, una piattaforma open source dedicata all’e-learning che propone anche servizi di blog, wiki, chat e forum. Nell’ultimo anno mi è capitato di parlare più di una volta con docenti o ricercatori che si dichiaravano entusiasti nell’usare un servizio come Moodle in sostituzione delle tradizionali Web cattedre, senza nemmeno ipotizzare altri utilizzi di un servizio ricchissimo di potenzialità come questo (penso per esempio al wiki o alla scrittura creativa collaborativa).

Ma, cosa ancor più grave, alcune Università che utilizzano una piattaforma open source come Moodle ? parlo solo di quelle con cui ho avuto modo di collaborare ? non consentono poi agli studenti di avere pieno possesso delle proprie ricerche. Per dirla ancor più chiaramente: che senso ha utilizzare un sistema come Moodle, frutto dell’etica e della filosofia open source, se poi si finisce per “ostacolare” la pubblicazione e la divulgazione dei saperi e delle ricerche realizzate dagli studenti? Eppure nella mia personale esperienza è capitato anche questo…

Tornando alla tua domanda, i due mondi devono avvicinarsi e molte persone, anche in Italia, si stanno impegnando per farli avvicinare ancor di più. In questo avvicinamento, lo ripeto ancora una volta, le spinte innovative principali non devono avvenire sul piano tecnologico, ma anche e soprattutto su quello culturale. E la cultura del Web 2.0, ancor più della tecnologia che lo rende possibile, rappresenta il reale vettore di innovazione a cui l’Università dovrebbe attingere.

I nostri lettori cosa ne pensano?
Qualcuno tra voi individua altre possibile tematiche da approfondire?
Io dire che di carne al fuoco per avviare una discussione ne abbiamo messa parecchia.

Fateci sapere cosa ne pensate a tal proposito.

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