La mappa dell'odio su Twitter

Mentre in Italia si parla molto dell'hate speech, negli Usa si mappano i tweet omofobici e razzisti, smentendo alcuni luoghi comuni.
Mentre in Italia si parla molto dell'hate speech, negli Usa si mappano i tweet omofobici e razzisti, smentendo alcuni luoghi comuni.

La mappa geografica dell’odio e del razzismo su Twitter. Una proposta di Chicco Mentana? No. Loro sono quelli che fornirono durante le ultime elezioni negli Stati Uniti la mappa che fece presagire come il razzismo nei confronti di Barack Obama non avrebbe vinto. Forse servirebbe anche in Italia.

Il gruppo di studiosi ha analizzato i tweet americani postati nel periodo compreso fra il giugno 2012 e l’aprile 2013, chiedendo agli studenti della Humboldt University di estrarre manualmente il sentiment per categorizzarli. In totale, oltre 150mila tweet georeferenziati sono risultati contenere un insulto odioso. Riaggregandoli secondo tre specie di pregiudizi (omofobia, razzismo, handicap) e sottocategorie terminologiche, ne è uscita una mappa, contea per contea, dell’odio americano.

La mappa è straordinaria nella sua fredda oggettività. Il peso quantitativo dei messaggi dal contenuto razzista e violento viene considerato rispetto all’attività generale del luogo, e le macchie colorate dipendono quindi dall’intensità dei contenuti, rappresentata dalle diverse sfumature, simili a quelle delle previsioni meteorologiche.

In Italia discussioni, negli Usa costruzioni

Perché questo esperimento è interessante? Si potrebbe dire che anche questa mappa segna la differenza tra italiani e americani: nel nostro paese si tende a discutere sterilmente, persino a mettere in discussione Internet; negli Stati Uniti si analizza e si prendono contromisure (come ha fatto lo stesso staff di Obama durante la campagna 2012) senza discutere il mezzo e rischiare così di ridurre la libertà di espressione.

Uno dei tormentoni più diffusi in Italia sull’odio tramite la Rete deriva dalla semplicistica equazione diffusione = incremento. I tanti soloni che hanno maldestramente puntato il dito contro la presunta pericolosità dei comportamenti espressi da alcuni utenti tramite i social sono convinti che l’hate speech si autoalimenti. Invece è del tutto sbagliato.

Lo spiegano benissimo gli esperti di geografia politica che hanno commissionato questo lavoro:

Abbiamo dimostrato che gli stati con la più alta quantità relativa di contenuto razzista in riferimento al presidente Obama – Mississippi e Alabama – erano notevoli non solo per essere crudamente anti-Obama nei loro modelli di voto, ma anche per le loro storie problematiche. Anche a occhio nudo le espressioni contemporanee di razzismo sui social media possono essere collegate ad un qualsiasi numero di fattori di contesto che spieghino la loro persistenza. La censura dell’hate speech ci ha spinto a esaminare in che modo i social media sono diventati un importante canale e come si esprime una particolare terminologia utilizzata per degradare una determinata minoranza. Come abbiamo documentato in una serie di casi, gli spazi virtuali dei social media sono intensamente legati a particolari contesti sociali e geografici del mondo offline: come dimostra questo lavoro la geografia dell’hate speech non è diversa.

In altri termini, i discorsi catturati su Twitter a contenuto razzista oppure sessista ed omofobo rappresentano in modo quasi sovrapponibile – ed emerso col voto – le opinioni diffuse tra i cittadini, senza che si noti un rafforzamento.

I fattori culturali sono più rilevanti di un tweet

Dunque, stando a questa mappa e a chi l’ha realizzata, chi è razzista lo è anche sul Web, mentre chi non lo è non lo diventerà certamente per colpa del Web. Lapalissiano? Forse sì, ma a quanto pare ogni tanto è bene ribadire qualche concetto, visto che da anni sulla Rete si stagliano, ciclicamente, minacciosi nuvoloni neri. Una mappa del genere sarebbe utile anche in Italia? Probabilmente sì, salvo che farebbe scoprire quel che già si conosce grazie ai sempre più raffinati strumenti demoscopici.

La Rete è un luogo, non un’entità, non ha colpe che non siano quelle di chi l’abita, non ha meriti che non siano quelli di chi la usa al meglio. Non ha una storia che non sia quella, complessa, stratificata, dei luoghi e delle comunità. Può, questo è vero, privilegiare una eccessiva personalizzazione dell’informazione, una visione a tunnel che qualifica come importanti soltanto quelli che hanno la medesima visione del mondo (come ha giustamente fatto notare John Freeman a Riccardo Staglianò su Repubblica), ma non è certo il caso di ciò di cui tanto ci si lamenta, cioè di chi esagera nel comunicare il suo odio verso chi viene ritenuto diverso.

In Italia i social sono equivalenti, non paradossali

La geografia dell’odio italiano è cambiata nel corso degli anni: lo scontro nord-sud ha lasciato il posto all’opposizione comunitario-extracomunitario, la società si è frantumata, parcellizzata a causa della crisi economica e anche morale del paese, nel quale la classe dirigente è diventata bersaglio di una frustrazione gigantesca, spesso vittima anche di brutali banalizzazioni. Tutto questo non poteva non avere degli effetti visibili in tutte le forme in cui le persone comunicano. Sarebbe stato paradossale il contrario. Altrettanto paradossale sarebbe danneggiare la Rete per questo motivo.

#ilrumoredeinemici
storia di una guerra ideologica

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