I Metatags illegali

Inserire all'interno dei metatags delle proprie pagine Web nomi di marchi altrui potrebbe rivelarsi una grave leggerezza. Alcune sentenze, anche in Italia, sembrano confermarlo del tutto.
I Metatags illegali
Inserire all'interno dei metatags delle proprie pagine Web nomi di marchi altrui potrebbe rivelarsi una grave leggerezza. Alcune sentenze, anche in Italia, sembrano confermarlo del tutto.

Con il termine metatags si intendono tutte le informazioni
sulle pagine Web, invisibili all’utente, ma riconoscibili dai motori di ricerca
che selezionano i siti o le pagine in base ai dati in essi contenuti.

La funzione di questo strumento, tra le altre, è quella di far risaltare
un sito, ponendolo in testa alla lista di quelli che contengono la parola
chiave usata dall’utente per compiere la ricerca. Il creatore di un sito,
attraverso i metatags, può descrivere il contenuto o il servizio offerto
nel suo sito, ed inserire delle parole chiave che lo rendano maggiormente
visibile nelle ricerche tramite i Search Engine (a questo proposito si veda
il nostro articolo).
I metatags possono contenere un numero di parole elevato, quindi il webmaster
potrebbe inserire al loro interno anche centinaia di vocaboli.

Supponiamo che un utente voglia raggiungere il sito della
Benetton. Digitando sui motori di ricerca il termine Benetton si vedrà comparire
tutti i siti contenenti quel termine, elencati in graduatoria anche in base
al numero delle volte che la parola chiave (Benetton) è inserita nei metatags.
Spesso, il nome o il marchio di un’impresa nota, viene inserito solo per
essere più visibili nei risultati di ricerca dei diversi motori. Quindi,
se il nome Benetton viene inserito nei metatags di un sito che non ha niente
a che vedere con tale società, può verificarsi che il sito ufficiale sia
classificato in fondo alla graduatoria e che non venga visitato dall’utente.

L’uso in malafede dei metatags assume rilievo giuridico sotto due profili:

  • La contraffazione del marchio
  • La concorrenza sleale.

Sotto il primo profilo è fuori di dubbio
che i metatags, pur non essendo direttamente visibili nel momento in cui
l’utente effettua la ricerca, esteriorizzano la loro funzione identificativa
influenzando la scelta del consumatore sul sito da visitare, ledendo quindi il diritto all’uso esclusivo del marchio. I metatags, possono creare confusione
nell’utente il quale potrebbe essere indotto a pensare che il marchio, comparendo
in diversi siti, sia di titolarità degli stessi e che i loro prodotti o servizi
presentino le stesse caratteristiche qualitative di quelli del marchio ricercato.

Sotto il secondo profilo, il fatto di inserire il marchio
o il segno distintivo altrui nei propri metatags, al fine di far individuare
il proprio sito, integra la violazione dell’articolo 2598 C.C. riguardante
la concorrenza sleale. Tale condotta genera ancora confusione nell’utente
e sfrutta la notorietà del marchio altrui: il visitatore vedendo visualizzato
dal motore di ricerca il marchio nei diversi indirizzi è portato a ritenere
esistente qualche collegamento tra le diverse entità.

Considerazioni simili, possono essere fatte anche per l’utilizzo
all’interno dei metatags di espressioni generiche, quando queste non hanno
alcun riferimento con l’attività svolta dal sito. L’uso in malafede dei metatags
può ravvisare inoltre gli estremi della pubblicità ingannevole ai sensi del
Dlgs 25 gennaio 92 n° 74.

Nella giurisprudenza statunitense si sono verificati diversi
casi di uso illecito dei metatags, alcuni dei quali hanno interessato società
importanti. Come nel caso di Playboy Enterprises contro Asiafocus Internetional
Inc. Quest’ultima aveva utilizzato tra i propri metatags termini come playboy
o playmate, direttamente riferiti all’attività di Playboy, creando la convinzione
che il sito della Asiafocus fosse in qualche modo collegato o sponsorizzato
da Playboy.

Un altro caso che vede sempre coinvolto Playboy è quello
contro la Calvin design label, che oltre ai metatags aveva utilizzato i marchi
dell’altra parte anche nel nome di dominio, nei contenuti del sito, nella
pubblicità e in altre forme; in questo caso Playboy riuscì ad ottenere una
temporanea sospensione delle attività illecitamente svolte dalla controparte.

Questi casi confermano la tendenza attuale, che è quella
di ricondurre le fattispecie dei metatags all’interno della disciplina della
concorrenza sleale e della contraffazione del marchio. Anche in Italia ci
sono stati dei casi giuridicamente rilevanti di uso scorretto dei metatags,
uno di questi risolto dalla nona sezione civile del Tribunale di Roma con
Ordinanza del 18 gennaio 2001, con la quale si è stabilito che: non è consentito
utilizzare il nome di un concorrente come metatags allo scopo di indirizzare
le query dei motori di ricerca dei potenziali clienti. Il caso riguardava
una controversia sorta fra due compagnie di assicurazioni, una delle quali
avrebbe inserito nei metatags il nome della concorrente, in modo che nella
ricerca effettuata dall’utente apparisse sempre anche il suo nome.

Parte della giurisprudenza ritiene che non è lo strumento
tecnico ad essere illecito ma le modalità d’impiego dello stesso. Un uso
corretto dei metatags non lede alcun diritto, anzi facilita l’utilizzo di
internet, permettendo all’utente di trovare le informazioni ricercate in
minor tempo.

Concludiamo indicando quello che è buona regola evitare per fare un uso corretto dei metatags:

  • no all’uso ripetuto e indiscriminato di parole chiave
  • no all’utilizzo di parole generiche non inerenti il contenuto della pagina o del sito
  • no alle forzature del motore di ricerca per evidenziare più un sito piuttosto che un altro

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